Gli Stati Uniti d’America, praticamente sin dalla loro fondazione, hanno sempre avuto una particolare passione per le invasioni d’oltremare. Bersaglio preferito, a partire soprattutto dagli anni ’90, il Medio Oriente ovviamente, terra piena di problemi, di contraddizioni e di gustoso petrolio, l’oro nero che ha fatto la fortuna di più di una corporazione, più di una multinazionale, più di un governo. Peccato però che si scelga di invadere un territorio sempre per i motivi sbagliati, per questo uno stanco ed esausto Michael Moore ha deciso di prendere d’impegno la questione e di conquistare vari Paesi in giro per il Mondo, cercando tutto fuorché il liquido nero. Armato – si fa per dire – della sola bandiera americana, da issare fieramente dopo ogni vittoria, l’autore di documentari cult come Bowling a Columbine e Fahrenheit 9/11 ha viaggiato attraverso l’Europa, la Tunisia, l’Islanda, cercando le migliori idee che questi luoghi avessero da offrire per rubarle ed esportarle in patria. Idee talvolta semplici ma incredibilmente geniali, come il sistema d’istruzione rivoluzionario usato in Finlandia, le ferie pagate e le tredicesime in Italia, il rapporto con la memoria della Germania, la gestione delle mense scolastiche in Francia, solo per ricordarne alcune. Tutte meccaniche inesistenti in America, dove invece i lavoratori hanno poche ferie e neppure pagate, oppure i bambini delle scuole sono costretti a mangiare cibi precotti dall’aspetto terrificante, le tasse sono mascherate da servizi aggiuntivi che al contrario figurano fra i servizi base di molte nazioni europee. A differenza degli ultimi lavori del regista di Flint, Where To Invade Next torna ad avere una struttura solida e un senso del racconto assoluto.
Accanto all’ironia
tagliente, che come tradizione ha il complicato compito di
alleggerire i lavori dell’autore, c’è tantissimo contenuto e un
minuzioso lavoro di ricerca; addirittura rispetto ai due film più
riusciti di Moore, che ricordavamo sopra, vi è un senso di speranza
oltre al classico tono di denuncia. Non si parla di conquiste
inarrivabili, o di fantascientifici viaggi alla volta di Nettuno,
ma di piccole enormi vittorie sociali che il governo degli USA
potrebbe iniziare a vagliare da subito, senza troppi fronzoli.
Basterebbe innanzitutto tagliare le spese belliche, che fra le
altre cose succhiano gran parte delle tasse americane (se solo i
cittadini vedessero indicate le cifre nelle buste paga…), per
iniziare a pensare alla sanità, all’istruzione, agli altri e non al
singolo, al futuro di un Paese che potrebbe essere il più avanzato
fra tutti. Questo perché, forse, cercando bene fra le pieghe di una
nazione troppo obesa, troppo colma d’odio, di rabbia, di
repressione e paura, quelle idee vi sono già, non è necessario
rubarle ad altri Paesi. Un documento di straordinaria lucidità,
essenziale e ricco di spunti, costruito in modo da divertire lungo
la prima parte e far riflettere profondamente nella seconda, sino
ad arrivare ad un epilogo all’ombra del muro di Berlino, così alto
e insormontabile eppure fragile e friabile, avendo uno scalpello e
un martello fra le mani.