Juste la fin du monde: recensione del film di Xavier Dolan

Juste la fin du monde

In Juste la fin du monde nell’immaginario comune, la fine del mondo è quel momento esatto in cui tutto scomparirà. Succederà per lo scoppio del sole, per un nuovo meteorite in caduta libera dal cielo, per l’innalzamento dei mari e degli oceani dovuto al surriscaldamento globale.

 

Tenendo però la fantasia a freno, restando umani con i piedi saldi sul terreno, la fine del mondo è più verosimilmente un dramma personale, una malattia terminale, un’occasione mancata, del tempo perduto, perché ognuno di noi è un mondo a se stante. Anche Louis è un pianeta a se stante, staccatosi dalla sua orbita familiare per scappare lontano da quei volti che non hanno mai compreso il suo essere, che non hanno mai ascoltato ciò che aveva da dire; lontano da quelle voci che non sono mai partite a cercarlo, quei pensieri che non si sono mai chiesti perché ogni cartolina non avesse più di tre, quattro parole scelte quasi a caso dal manuale delle frasi fatte.

Essere figli, come prima essere genitori, fratelli maggiori, è tutt’altro, è più che sedersi a un tavolo la domenica per divorare un piatto nel silenzio più assordante, o ancor peggio fra le urla più laceranti. Urla di chi ha un impellente bisogno di non dire niente e allo stesso tempo non vuole far comunicare neanche gli altri, anche se non ci si vede da dodici infiniti anni. Anni che ci hanno fatto diventare adulti, che ci hanno portato dei figli, dei nipoti, delle rughe profonde, ma che in sostanza hanno lasciato la medesima polvere sui mobili, lo stesso odore di bruciato in cucina, l’identico sguardo chiuso su noi stessi.

Juste la fin du monde, il film

Se in Mommy si giocava con il formato dell’immagine, con i protagonisti in cerca di un loro spazio rinchiusi in un piccolo quadrato, in Juste la fin du monde si incastra ogni viso in una serie infinita di primi piani soffocanti, asfissianti, che non permettono di guardare oltre i lineamenti di ognuno. Perché il contesto è un’isola che non c’è, è un sogno dopo il risveglio, è terra bruciata, e guai a credere al contrario, a pensare a Suzanne, Antoine, Catherine come a personaggi reali in un luogo reale.

Juste la fin du monde

Nonostante i suoi pochi anni, appena 27, Xavier Dolan è già oltre ogni meccanica di cinema, di messa in scena, di recitazione; tutto ciò che tocca e fa è pensiero, astrazione, utopia, eppure è universale. Perché in ogni famiglia infelice esiste una Suzanne, una sorella minore ribelle che ha poco spazio di manovra e può solo combattere ringhiando, una Catherine, una madre amorevole e attenta schiacciata da un matrimonio opprimente, un Antoine, un fratello maggiore egoista che si sente tradito dagli altri perché non ha mai fatto nulla per se stesso. In ogni famiglia infelice esiste anche un Louis, un’anima perennemente in fuga, perché l’incomunicabilità dei sentimenti è il peggior male del nostro secolo. Un dolore talmente radicato nel nostro essere contemporanei che in fin dei conti qualsiasi altra malattia incurabile può sembrare infinitamente più compassionevole, in grado di farci sorridere un attimo prima della nostra personale fine del mondo, della nostra liberazione, del nostro volo finale, all’interno di una gabbia dai vetri di cemento.

Juste la fin du monde si trasforma così in esperienza viscerale e impalpabile, soggettiva e inspiegabile, isterica e sovrumana. Un’opera da vedere con i propri occhi, sentire con la propria pelle, comprendere con il proprio pensiero, andando oltre la barriera del meta-cinema e dubitando di ogni singola parola detta da Marion Cotillard, Vincent Cassel, Gaspard Ulliel, Léa Seydoux e Nathalie Baye: è ai loro occhi, guidati dal loro inarrivabile talento, che dovete credere.

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RASSEGNA PANORAMICA
Voto di Aurelio VIndigni Ricca
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Aurelio Vindigni Ricca
Fotografo e redattore sul web, caporedattore di Cinefilos Games e direttore editoriale di Vertigo24.
cannes-2016-juste-la-fin-du-monde-recensione-del-film-di-xavier-dolanJuste la fin du monde si trasforma così in esperienza viscerale e impalpabile, soggettiva e inspiegabile, isterica e sovrumana. Un’opera da vedere con i propri occhi, sentire con la propria pelle, comprendere con il proprio pensiero, andando oltre la barriera del meta-cinema e dubitando di ogni singola parola detta da Marion Cotillard, Vincent Cassel, Gaspard Ulliel, Léa Seydoux e Nathalie Baye: è ai loro occhi, guidati dal loro inarrivabile talento, che dovete credere.