C’è chi dice NO: recensione del film

C'è chi dice NO

In C’è chi dice NO Max, Irma e Samuele sono tre ex compagni di scuola che hanno in comune un solo nemico: i raccomandati. Tutti e tre professionisti in gamba vengono scalzati da raccomandati che prendono ingiustamente i loro posti, e così decidono di darsi una mano rendendo la vita impossibile ai tre ‘usurpatori’.

 

Raccomandazione, calcio, segnalazione, comunque la si voglia chiamare è una gran brutta storia, che in Italia va per la maggiore. E così con C’è chi dice NO Giambattista Avellino ci racconta questa storia, equilibrata, divertente ma mai ridanciana, con protagonisti ben scelti e qualche bravo comprimario. Luca Argentero, a furia di fare film, sta imparando qualcosa e sembra sempre più convincente nei ruoli che gli vengono assegnati, abbastanza bravo anche ad emulare un fiorentino che non gli si addice molto me che è sembrato un ostacolo per tutti, anche per la sempre brava Cortellesi, in questo film forse troppo sacrificata alla coralità del racconto. Molto bravo invece Paolo Ruffini, livornese senza problemi d’accento che diverte ed emoziona, mantenendo sempre un discreto equilibrio che caratterizza poi tutto il film. Comprimario d’eccezione è Giorgio Albertazzi che interpreta un decano dell’Università, completamente invischiato in loschi affari di favoritismi e raccomandazioni: inutile sottolineare che qualunque fosse stato il suo ruolo, l’avrebbe interpretato a meraviglia.

C’è chi dice NO, il film

Poco convincente la distribuzione nel tempo degli eventi; anche se la storia si muove su dinamiche ben costruite, l’idea finale della protesta collettiva, giustamente ambientata all’università, viene portata avanti un po’ tropo tardi e resta solo un accenno che poteva invece costituire non solo un vero e proprio filo conduttore, ma anche una sostanziale novità nella drammaturgia della commedia odierna. Interessante però notare come la commedia si sposti sempre di più su temi sociali, che sono straordinariamente attuali (era successo già con Benvenuti al Sud e Nessuno mi Può Giudicare), tanto da sembrar essere stati girati qualche giorno prima della presentazione, un segnale importante che discosta finalmente il cinema nostrano da quell’intimismo buonista che aveva visto in passato un susseguirsi di storie d’amore più o meno identiche e lo accompagna forse verso un nuovo grado di maturità.

Resta tuttavia il rimpianto di una volontà, sebbene negata, palesemente edulcorante nel finale che pur dando una visione consolatoria risulta anche falsata.

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