Dante, recensione del film di Pupi Avati

Dante recensione

Pupi Avati torna al cinema. Dopo Lei mi parla ancora uscito l’anno scorso su Sky, scrive e dirige un progetto a cui aveva iniziato a pensare dal 2003: Dante. Rapito e mosso dall’ammirazione reverenziale per il sommo poeta, il regista cerca di scovare il modo per renderlo avvicinabile nella sua umanità, seppur maestosa, tentando di redimerne l’immagine che a molti è stata fatta odiare ai tempi della scuola.

 

Dante, la storia raccontata nel film

Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) nel 1350 riceve l’incarico di recapitare dieci fiorini d’oro a Suor Beatrice (Valeria D’Obici), figlia dell’Alighieri, come risarcimento per le sofferenze e l’umiliazione causate a suo padre durante l’esilio da Firenze. La storia, dunque, consiste nel lungo e faticoso viaggio che Boccaccio percorre dal capoluogo toscano fino a Ravenna per raggiungere il convento in cui alloggiava la donna. Lo scrittore del Decameron compie praticamente tutte le tappe del tragitto che avevano fatto arrivare Dante al definitivo luogo d’esilio, incontrando alcuni degli stessi personaggi con cui lui stesso si era relazionato (tra cui Milena Vukotic, Alessandro Haber, Gianni Cavina, Enrico Lo Verso) e provando lo stesso affaticamento fisico e la crescente povertà.

Dante diventa così il racconto del profondo affetto di un poeta nei confronti del suo predecessore, attraverso il cammino che fa vivere all’uno la parte più terrena e corporea dell’altro, nei numerosi flashback che raccontano molti momenti della biografia dell’Alighieri fin da ragazzo (Alessandro Sperduti) col suo amore per l’angelica Beatrice (Carlotta Gamba) e la dolce amicizia con Cavalcanti (Romano Reggiani), fino alla vecchiaia (Giulio Pizzirani) vissuta, appunto, a Ravenna.

Una cornice che raccoglie l’aria del XIV secolo

Il Dante di Pupi Avati ha effettivamente una cornice che raccoglie l’aria terrosa, umida e vagamente malaticcia che si respirava nella metà del XIV secolo. Per farlo, inserisce qua e là nella messa in quadro elementi che accennano all’horror, storcendo un po’ i corpi, a volte nella bruttezza, altre nel consumarsi della vecchiaia. Questo conferisce note cupe all’andamento del racconto, supportato dallo sguardo deformante del grandangolo, utilizzato abbondantemente in gran parte delle scene.

Perciò, nonostante gli attimi di estasi delle sequenze insieme a Beatrice, il tratto appena angosciante di Pupi Avati lascia il suo segno in tutto l’arco narrativo, come le musiche talvolta stridenti in sottofondo.

Chiaramente la personalità recitativa di Sergio Castellitto è il perno attorno a cui può ruotare ben saldo il resto del film, per quanto anche Alessandro Sperduti e Carlotta Gamba (America Latina) riescano a dare un buon carattere ai loro giovani personaggi. È evidente, dunque, che il progetto abbia delle direzioni ben più alte rispetto a quel che è possibile fare con la mole di lavoro da dover mettere in scena, e l’alternanza tra il viaggio di Boccaccio e gli eventi della vita di Dante provano a giocare tra loro, richiamandosi, uniti dal filo dell’amore quasi filiale del primo nei confronti del secondo. Insomma, risulta interessante il lavoro finale del regista e scrittore, che ha fatto ricerche approfondite per tutti questi anni, ma sfugge di mano la possibilità di entrare e farsi coinvolgere dal viaggio dei protagonisti.

Un poeta che va avvicinato con la poesia

Dante Alighieri resta un poeta e come tale va avvicinato da fuori. Non è proprio possibile, evidentemente, sperare che qualcosa di plateale catturi e seduca tramite lo schermo, e probabilmente va bene così. Le parole intime composte per creare un’immagine mentale appartenenti letteralmente a un altro mondo, sono destinate a dover essere soprattutto lette e meditate per poter essere comprese. Qualunque altro mezzo ne riduce il significato.

Il film Dante non è, quindi, malriuscito: raggiunge l’intento di parlare di una parte importante della storia che riguarda l’Alighieri e rende bene uno spaccato del tempo nel quale ha abitato. Ma resta un’inesorabile distanza che affeziona  poco ai personaggi e ai fatti: una resa complessiva ben dipinta e costruita, ma nella quale l’emotività rimane placidamente sopita.

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