Dopo Oliver: recensione del film Netflix

Il film segna il debutto alla regia per un lungometraggio di Dan Levy, qui in veste anche di sceneggiatore e protagonista

Dopo Oliver film recensione

Il dolore rende vulnerabili. È come essere spogliati di tutti i vestiti e sapere che anche una folata di vento tipieda potrà far ammalare. Perché con il corpo nudo la salute diventa più attaccabile, e allora bisogna fare di tutto per evitarlo anziché tentare di creare degli anticorpi. E se lo si cala nel contesto dell’elaborazione di un lutto, è una sensazione che si amplifica ed espande. Marcus, il protagonista di Dopo Oliver, lo sa molto bene. Netflix inizia il nuovo anno introducendo nel suo catalogo un film che fonda la sua narrazione proprio sulla perdita di qualcuno che si ama, e sui meccanismi incontrollati – e incontrollabili – che si mettono in moto nel cervello della persona colpita.

 

Dopo Oliver segna il debutto alla regia di Dan Levy per un lungometraggio in cui la sua firma è apposta anche sulla sceneggiatura oltre che sul soggetto. L’attore canadese presta il volto al suo stesso protagonista, nel tentativo – non troppo riuscito, lo anticipiamo – di indagare la fragilità dell’essere umano quando è sottoposto al forte stress del lutto. Levy ce lo mostra come un lavoro richiedente un grande sforzo fisico e mentale, e che proprio per la sua difficile portata si tende a non affrontarlo, credendo – erroneamente – di superare prima il trauma. Accanto a Dan Levy troviamo i comprimari Ruth Negga e Himesh Patel, rispettivamente Sophie e Thomas, i due migliori amici di Marcus che navigano con lui dentro le acque oscure della sofferenza.

La trama di Dopo Oliver

Marcus e Oliver vivono una vita agiata a Londra. Il primo è un artista, il secondo è uno scrittore di gran fama. Nel momento in cui inizia il film è Natale, e i due stanno cantando nel loro lussuoso appartamento con amici e parenti, e non c’è niente che possa rompere la magia. Sono una coppia sposata e si amano come il primo giorno, e il loro amore è celebrato da tutte le persone che gli stanno attorno, in particolare da Sophie e Thomas, i migliori amici di Marcus. Quella stessa sera, però, Oliver è costretto a partire per via di una presentazione del libro che si terrà l’indomani a Parigi, ma subito dopo aver preso il taxi muore davanti agli occhi del marito.

Traumatizzato da quanto accaduto, Marcus – già scosso per la perdita della madre – decide di non metabolizzare realmente l’evento e volta le spalle al lutto, evitando persino di leggere una lettera che Oliver gli aveva lasciato prima dell’incidente. Dopo diversi mesi, Sophie e Thomas lo spingono ad aprirla per capire cosa il marito gli avesse scritto, ed è in quel momento che Marcus si scontra con alcune verità scomode e inaspettate. Deciso ad andare fino in fondo, parte con i suoi amici alla volta di Parigi, dove sarà messo di fronte alla dura realtà grazie alla quale dovrà affrontare la morte di Oliver: perdere qualcuno è difficile, ma in qualche modo bisogna pur elaborarlo.

Good Grief

La difficoltà di elaborare un lutto

Come accennavamo in apertura, elaborare un lutto è un’esperienza dentro cui è facile smarrirsi. Un tunnel infinito nel quale si entra, senza sapere quando si vedrà la luce. È un atto di coraggio, in fondo, in cui si spendono molte energie per non esserne totalmente assorbiti. A volte, però, complice una fragilità mentale – o emotiva – si attua quel poco produttivo meccanismo di autodifesa per il quale si tende a fuggire, magari riempendonsi con qualsiasi altra cosa che possa alienare dalla realtà. Il risultato è che, se non ci si accorge dello sbaglio, alla fine ci si lascia sopraffare dal vuoto. Era questa la premessa e l’ossatura contenutistica di Dopo Oliver. Levy prova a parlarci dell’importanza di processare un trauma di questo tipo, senza però costruire per la sua storia un protagonista solido e tridimensionale, il quale invece si perde facilmente negli angoli di una sceneggiatura incompleta e frammentata, in cui spesso i dialoghi fra i personaggi sono dei filler inconcludenti inseriti solo per muovere in avanti la trama.

Ogni sequenza in cui il regista/attore esamina un aspetto del lutto e del suo rifiuto viene spezzata da un cambio di scena, facendo rimanere in sospeso i concetti di cui ci vuole parlare, quasi come se nel trasmettere dei messaggi allo spettatore non fosse in grado di esprimersi in maniera esaustiva. A giocare di contro è anche la palette di colori, che se fino all’incidente scatenante risultava calda per poi mutare in fredda per esigenze di scena e racconto (scelta funzionale), torna poco dopo ai suoi colori iniziali in modo estemporaneo, confondendo di conseguenza, e rinunciando ad essere “in tono” con il tono generale del film.

Persino la regia è poco ispirata e pressoché statica, una scelta che non permette di infilarsi né nelle crepe del lutto, né nella psicologia del protagonista, ma rimane a guardarlo impassibile dall’esterno, rendendo molto difficile empatizzare con Marcus e avvertire qualsiasi trasporto emotivo. Dopo Oliver si trasforma dunque in un film troppo spento, e un’occasione mancata per Dan Levy di parlare di lutto – e morte – con un’intimità e una delicatezza tale da poter far legare il pubblico alla sua arte cinematografica.

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RASSEGNA PANORAMICA
Voto di Valeria Maiolino
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Valeria Maiolino
Classe 1996. Laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza, con una tesi su Judy Garland e il cinema classico americano, inizia a muovere i primi passi nel mondo della critica cinematografica collaborando per il webzine DassCinemag, dopo aver seguito un laboratorio inerente. Successivamente comincia a collaborare con Edipress Srl, occupandosi della stesura di articoli e news per Auto.it, InMoto.it, Corriere dello Sport e Tutto Sport. Approda poi su Cinefilos.it per continuare la sua carriera nel mondo del cinema e del giornalismo, dove attualmente ricopre il ruolo di redattrice. Nel 2021 pubblica il suo primo libro con la Casa Editrice Albatros Il Filo intitolato “Quello che mi lasci di te” e l’anno dopo esce il suo secondo romanzo con la Casa Editrice Another Coffee Stories, “Al di là del mare”. Il cinema è la sua unica via di fuga quando ha bisogno di evadere dalla realtà. Scriverne è una terapia, oltre che un’immensa passione. Se potesse essere un film? Direbbe Sin City di Frank Miller e Robert Rodriguez.
dopo-oliver-netflixIl debutto dietro la macchina da presa per un lungometraggio di Dan Levy risulta confuso e spento. Pur con delle valide premesse il film si perde in una sceneggiatura poco ispirata e una regia statica, fattori determinati che impediscono al pubblico di empatizzare con Marcus e avvertire qualsiasi trasporto emotivo.