Con Elisa, presentato in Concorso a Venezia 82, Leonardo Di Costanzo torna a interrogarsi sulla dimensione del carcere e sulla natura umana, proseguendo un discorso iniziato con Ariaferma ma declinandolo in chiave più intima e psicologica. Là i rapporti tra detenuti e guardie diventavano il prisma attraverso cui raccontare la privazione della libertà; qui, invece, tutto si concentra sulla vicenda interiore di una sola protagonista, Elisa, una donna di trentacinque anni che sconta una condanna pesantissima per un delitto atroce e apparentemente inspiegabile: l’omicidio della sorella maggiore e la successiva distruzione del corpo.
È un fatto di sangue che non nasce da marginalità, disagio sociale o follia, ma che affonda le radici nell’enigma del quotidiano, in quella linea sottile che separa la normalità dalla violenza più estrema. È proprio questo nodo, inquietante e disturbante, a costituire il cuore del film.
La memoria frantumata di Elisa
Elisa, interpretata da Barbara Ronchi con intensità e misura, ha scelto (?) di dimenticare. Dichiara di non ricordare quasi nulla del giorno del delitto, come se un velo di silenzio avesse avvolto ogni dettaglio della sua colpa. Quel vuoto diventa il vero carcere mentale. A rompere questo immobilismo è l’incontro con il criminologo Alaoui, che la invita a partecipare alle sue ricerche. Attraverso un dialogo serrato, fatto di reticenze, ammissioni e improvvise crepe nella memoria, Elisa inizia un cammino doloroso ma necessario verso l’accettazione della verità. Il percorso è tutto in salita: ogni frammento di ricordo riemerso diventa un colpo inferto a se stessa, ma anche l’unica possibilità di avvicinarsi a una forma di redenzione.
Il film si colloca in continuità con la riflessione che Di Costanzo porta avanti da anni sul carcere e sulla colpa. Se in Ariaferma l’elemento centrale era la convivenza forzata, con le tensioni e i legami che ne scaturivano, qui l’attenzione si concentra sul rapporto tra individuo e coscienza. Non più lo spazio comunitario della detenzione, ma la solitudine di una mente che deve fare i conti con il proprio abisso.
Il regista dichiara di essersi ispirato agli studi dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, i quali da tempo indagano sui cosiddetti “crimini efferati” compiuti da persone comuni, prive di patologie psichiatriche o di condizioni sociali degradate. Sono quei delitti che destabilizzano l’opinione pubblica perché incrinano la rassicurante distinzione tra il “mostro” e il cittadino normale. Di Costanzo traduce questa prospettiva in un racconto asciutto, sobrio, lontano dagli eccessi spettacolari, interessato a esplorare il vuoto interiore più che la cronaca nera.

Barbara Ronchi, un enigma incarnato
La riuscita del film poggia in larga parte sulla performance di Barbara Ronchi. L’attrice costruisce un personaggio enigmatico, sospeso tra fragilità e freddezza, capace di manipolare chi le sta intorno ma anche di mostrare ferite autentiche. La sua Elisa suscita sentimenti contraddittori: a tratti appare come una vittima della propria incapacità di ricordare, in altri momenti emerge con chiarezza la brutalità dell’atto compiuto.
È un equilibrio delicato, che Ronchi regge con grande rigore, evitando sia il melodramma sia l’appiattimento psicologico. Grazie alla sua interpretazione, lo spettatore si ritrova continuamente oscillante tra empatia e rifiuto, tra comprensione e condanna. Ed è proprio questa ambiguità a costituire la forza drammaturgica del film.
Dal punto di vista estetico, Elisa conferma lo sguardo sobrio e rigoroso di Di Costanzo. Ambientato tra Italia e Francia, spesso immerso in paesaggi boschivi e innevati, il film crea un’atmosfera sospesa, in cui realtà e memoria sembrano confondersi. La fotografia costruisce un senso di sospensione che non riguarda solo il tempo narrativo, ma anche il giudizio morale: siamo portati a osservare senza emettere verdetti affrettati, a sostare in quella zona grigia dove colpa e umanità si intrecciano.
Questa eleganza formale, però, ha anche un rovescio: la regia mantiene sempre un passo indietro, restando composta e misurata anche nei momenti più duri. Ne risulta un’opera elegante, certo, ma a tratti trattenuta, che rischia di smorzare l’impatto emotivo del racconto.
La mostruosità come parte dell’umano
Uno dei meriti principali di Elisa è il rifiuto di relegare il male a un altrove mostruoso. Di Costanzo ci ricorda che la violenza può scaturire dall’interno dell’ordinario, dalla banalità del vivere quotidiano. In una società in cui la narrazione mediatica tende a trasformare i colpevoli in figure disumane, esiliandoli dal corpo sociale, il film ci invita invece a riconoscere la mostruosità come parte dell’umano. È un discorso scomodo, che interroga lo spettatore più di quanto offra risposte.
Tuttavia, questo tema cruciale rimane in parte in superficie. Il racconto si concentra soprattutto sul percorso individuale della protagonista, lasciando in secondo piano l’indagine più ampia sulla natura del male che le note di regia sembravano promettere.
Elisa non è un film facile né consolatorio. È un’opera elegante, rigorosa, che prosegue il percorso autoriale di Leonardo Di Costanzo con coerenza e sobrietà. I suoi limiti, riscontrati in una certa trattenutezza emotiva, il rischio di rimanere più sulla parabola personale che sull’indagine teorica, non ne cancellano il valore: quello di restituire allo spettatore l’inquietudine più profonda, cioè che il male non appartiene a un altrove, ma è una possibilità inscritta nella fragilità dell’umano.
Elisa
Sommario
Il film restituisce allo spettatore l’inquietudine più profonda, cioè che il male non appartiene a un altrove, ma è una possibilità inscritta nella fragilità dell’umano.