Father Stu: recensione del film con Mark Wahlberg

Father Stu recensione film

Il lutto è tema ricorrente in Father Stu, film d’esordio da regista per la sceneggiatrice Rosalind Ross. Una quotidianità fatta di alcol, violenza e sesso porta il pugile Stuart ‘Stu’ Long (Mark Wahlberg) sulla via della perdizione. Nei suoi pensieri oscuri echeggia il senso di colpa di essere vivo, dopo la morte prematura del fratellino; tragedia che porterà il padre (Mel Gibson) all’alcolismo e la madre (Jacki Weaver) a condurre la vita in modo cinico e disinteressato, evitando ogni forma di fiducia nel figlio che le rimane.

 

Il film, tratto da una storia vera, racconta della chiamata al sacerdozio di un ex pugile funestato da una situazione familiare complicata, che lo tormenta. Father Stu segue svolte narrative inaspettate e parla in maniera diretta allo spettatore, raccontando una storia di riscatto, di trasformazione interiore, di redenzione. La vicenda di Stuart incalza lo spettatore e lo tiene coinvolto emotivamente, facendolo soffrire al fianco dei personaggi, e allo stesso tempo facendogli condividere anche la fiducia nella speranza della salvezza finale.

Mark Wahlberg nei panni di Father Stu pugile redento

L’apprezzabile interpretazione di Mark Wahlberg mette bene in scena l’evoluzione del personaggio, la crescita e l’emancipazione da una condizione di dolore: Stuart è sorprendentemente dinamico e disposto al cambiamento e Wahlberg non ha difficoltà nel destreggiarsi tra la rappresentazione di una vita senza freni e una che gli permette di raggiungere un riscatto spirituale.

Focalizzandosi sul conforto della fede, Rosalind Ross racconta una morale sicuramente molto legata agli ideali tipici della cultura americana, tanto che è proprio la fede è salvifica e conduce il protagonista al ricongiungimento con la famiglia che in passato era la sua principale fonte di sofferenza e disagio.

Mel Gibson: sarcasmo e religione

Pregevole anche il personaggio di Bill (il padre di Stuart), interpretato da Mel Gibson, che riesce a mescolare nella sua interpretazione pessimismo e senso dell’umorismo, facendosi protagonista di dialoghi sarcastici che rimangono vividi nella mente dello spettatore.

Rosalind Ross ci consente di emozionarci insieme ai personaggi, creando un legame stretto tra questi e lo spettatore. Questa vicinanza emotiva ai protagonisti, insieme al ritmo concitato del film, rende impossibile allontanarsi emotivamente dalla storia e soprattutto dal percorso di redenzione di Stuart: lo spettatore immaginerà di camminare accanto a lui nel suo percorso salvifico.

Il linguaggio della regista è finalizzato sicuramente a questo obiettivo: la vicinanza ai corpi, la presenza incombente dei primi piani, sono scelte registiche che ci permettono (o costringono in alcuni casi) di empatizzare con i personaggi, con Stuart in particolare, soprattutto nei suoi momenti di disperazione, ricerca spirituale, preghiera.

Come accade alle abitudini di Stuat, anche il ritmo del film cambia tra la prima parte e la seconda: da concitato e confusionario, diventa più disteso nel momento della ricerca salvifica di sé stesso quando comincia ad avere cura del prossimo. Anche visivamente il film racconta il cambiamento del protagonista, con le colorazioni fredde e abbacinanti della prima parte che cedono il posto a colori caldi e luci soffuse e accoglienti, che suggeriscono calma e raccoglimento, proprio come dentro a una chiesa.

Eccesso di spiritualità?

Pur lasciandosi sedurre dal valore rieducativo della religione, fortunatamente il film non varca la soglia della propaganda. Tuttavia, la seconda parte della storia, proprio per la sua componente didattica e moraleggiante, potrebbe allontanare gli spettatori più razionali per eccesso di spiritualità, per una rappresentazione salvifica della religione che mette tutto in ordine, anche quegli insanabili legami familiari spezzati messi in scena nella prima parte del film.

Rosalind Ross, sceneggiatrice prima che regista, ha una padronanza notevole nella scrittura, nonostante qualche passaggio di dialogo esageratamente didascalico. La struttura della narrazione è semplice e efficace e la scrittura del personaggio di Stuart sicuramente è ben riuscita. Elemento di spicco è, come accennato, il padre di Stuart, che con il figlio dà vita ai migliori scambi del film, colmi di sarcasmo e punteggiati di ironia; così come i loro dialoghi, anche il loro rapporto è la relazione meglio rappresentata nel film. 

Con il debutto suo debutto alla regia, Rosalind Ross emerge con uno stile distintivo che enfatizza gli elementi drammatici e spirituali della storia. Father Stu offre una narrativa coinvolgente che spazia tra il dramma personale, la ricerca spirituale e la redenzione, enfatizzando, forse troppo, un modello di spiritualità lontano dal realismo.

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