Dobbiamo parlare. Incipit inquietante di qualunque conversazione, anche la più banale, in grado di creare un’ansia da prestazione notevole in chi la pronuncia e in chi la deve ricevere. Sceglie di partire proprio da questa frase secca e lapidaria Sergio Rubini per il suo ultimo lavoro, Dobbiamo Parlare appunto.
Dobbiamo Parlare è una storia di un intricato quadrilatero emotivo: Vanni (Sergio Rubini), scrittore, e Linda (Isabella Ragonese), sua assistente e “ghost writer”, sono una coppia da dieci anni:. Lei ha trent’anni, mentre il suo compagno quella boa l’ha aggirata da un bel pezzo e si avvia ormai verso la cinquantina. Una sera piombano in casa loro- un lussuoso attico nel centro di Roma- la storica coppia di amici costituita da Alfredo, detto “il Prof” (Fabrizio Bentivoglio) famoso cardiochirurgo e sua moglie Costanza (Maria Pia Calzone), stimata professionista a sua volta, in piena crisi matrimoniale. La donna ha infatti scoperto che il marito la tradisce con un’altra, innescando una reazione a catena di eventi pronti a deflagrare, violentemente, tra le quattro mura domestiche, mentre la notte avanza e le bugie si sgretolano lasciando il posto a verità scomode, pronte a minare qualunque tipo di sentimento e relazione in gioco.
Dobbiamo
Parlare lascia immediatamente sorpresi: ricalca il
tradizionale impianto delle commedie francesi che hanno spopolato
negli ultimi anni, prima in teatro e poi al cinema, prodotti come
Carnage e Cena tra amici, film campioni
di incassi (il secondo è stato oggetto di un remake tutto italiano,
Il Nome del Figlio; il primo invece
è balzato agli onori della cronaca grazie alla versione
hollywoodiana firmata da Roman Polanski) forti
della loro struttura: ambiente unico, dialoghi brillanti, analisi
spietata, cinica e scorretta dei sentimenti, della fallacità delle
relazioni umane e dei rapporti sociali che lentamente svelano la
loro superficialità, a partire da un banalissimo incidente
scatenante.
Rubini non si allontana da questo solco, anzi, lo cavalca in modo pedissequo ed orgoglioso, confezionando un prodotto gradevole ed intelligente, in grado di intrattenere il pubblico che tende a seguire, come in una partita di tennis, i serrati botta e risposta tra i vari personaggi, curiosi di capire chi otterrà il punto e chi perderà, invece, la partita. Ma nonostante queste premesse interessanti, il film sembra restare ingabbiato in una logica teatrale stantia e logora: i quattro attori non si lasciano andare divertendosi, anzi, piuttosto ricadono nel controsenso “mucciniano” che prevede che gli attori debbano urlare sul set a tutti i costi, mostrando una gamma di sfumature monocromatiche che vanno dall’isteria, al pianto, al la leggerezza, per poi ricominciare creando un vero e proprio cortocircuito comunicativo.