Great Freedom, recensione del film con Franz Rogowski

Il film ha trionfato nella sezione Un Certain Regard a Cannes 2021.

Una scena di Great Freedom

Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2021, dove si è aggiudicato il Premio della giuria, Great Freedom (Große Freiheit) di Sebastian Meise arriva per il pubblico italiano il 27 gennaio su MUBI. Il film, con un sempre brillante Franz Rogowski protagonista, si regge tutto sui silenzi di una personalità costretta alla reclusione e che vive e sperimenta proprio secondo le regole di codice della prigionia, uniche che conosce e a cui fa affidamento in un contesto in cui, paradossalmente, sbarre e limitazioni possono anche proteggere.

 

Great Freedom: la trama

Hans (Franz Rogowski) non conosce affatto il concetto di libertà, o meglio, lo ha plasmato da sè. Dal 1945, il giovane tedesco ha trascorso la maggior parte della sua vita all’interno del sistema carcerario, passando dal campo di concentramento prima della caduta del Terzo Reich a innumerevoli prigioni della Germania occidentale. Il suo crimine? Accettare apertamente la propria omosessualità. Secondo l’articolo 175 del codice penale, allora in vigore nella nazione, qualsiasi attività sessuale tra individui dello stesso sesso era punita dalla legge con pene severe che – durante il regime nazista – ammontavano a un massimo di cinque anni di confino.

Dopo essere stato colto in flagrante nella toilette di un parco nel 1968, il protagonista viene rimandato in prigione, l’unico posto al mondo dove può essere se stesso senza il costante giudizio e rifiuto della società. È lì, tra le faccende quotidiane del laboratorio di cucito, che incontra Leo (Anton von Lucke), un insegnante che sta scontando una condanna per le sue preferenze sessuali. Immediatamente, il rapporto tra i due detenuti diventa più di una semplice amicizia e Hans, forte della sua esperienza di oltre vent’anni dietro le sbarre, decide di diventare il suo angelo custode, senza curarsi del fatto che tali manifestazioni d’affetto lo portano a trascorrere lunghi giorni e notti in una buia e minuscola prigione di isolamento.

Ma Hans non è solo. Ogni volta che il suo spirito sta per cedere, una luce – in senso letterale e figurato – torna a illuminare il suo cammino e gli restituisce la forza e il coraggio di non arrendersi. Il suo nome è Viktor (Georg Friedrich), un criminale con cui ha condiviso la cella dopo aver lasciato il campo di concentramento in cui era prigioniero. Sebbene all’inizio il ruffiano lo tratti con lo stesso disprezzo del resto dei detenuti e dei gendarmi a causa delle sue “perversioni”, inizia a empatizzare con il giovane quando si rende conto delle prove che ha dovuto superare nella vita, sfidando coraggiosamente il rifiuto e l’oppressione di un intero sistema.

Franz Rogowski in Great Freedom

Franz Rogowski è Hans

Il personaggio di Franz passa di cella in cella in Great Freedom come se sapesse che quello è il suo destino, predisposizione attitudinale che ci porta direttamente alla “grande libertà” del titolo, che ha a che fare con il rimanere rinchiusi ma agire in nome di una ribellione che, storicamente, arriverà più tardi, ma viene anticipata da una personalità come questa. Rogowski – ormai pupillo del cinema europeo e che abbiamo visto lo scorso anno in Freaks Out di Gabriele Mainetti – offre una performance brillante nei panni di Hans, che procede per sottrazione dal punto di vista verbale, ma punta tutto sulla mimica facciale di un uomo che sta costruendo la propria vita sui silenzi e sulla rassegnazione.

Unicità e contingenza

L’incontro con l’uomo è, per Hans, all’ordine del giorno. Il confronto con altre variazioni di mascolinità e, contemporaneamente, con la propria sessualità, passa attraverso gli uomini che incontra ogni giorno. Alcune sono conoscenze fugaci, con altri si ritroverà più spesso, ma il punto di vista maschile – sebbene Hans sia quanto di più lontano ci sia da un’idea di maschile tosto, possente e risoluto – permea l’intera narrazione e le immagini. Un cast di soli uomini, una fotografia impostata sui toni del blu e dell’azzurro, il ricordo della guerra e dei campi di concentramento è filtrato dalla memoria degli uomini. Una messa in scena che si contrappone totalmente a quella di un film agli antipodi di Great Freedom, Chicago, in cui si trovano rinchiuse donne frizzanti che non hanno paura di cantare e schiaffarci in faccia i loro crimini. Nelle carceri che attraversa Hans, invece, regna il silenzio di una consapevolezza comune: chi è omosessuale è un pervertito e le inclinazioni sessuali sono un delitto grave quanto l’aver ucciso.

Great Freedom si prende tutto il tempo necessario per seguire lo sguardo di Franz, dall’arrendevolezza ai momenti di luce che riesce comunque a scorgere. Non è un film che ricerca il coinvolgimento assoluto dello spettatore e, forse, a cui proprio per la gestione del ritmo narrativo risulta difficile approcciarsi. La grande libertà non scende a compromessi, non vuole fare di chi la ricerca un capobranco: è individuale, contingente, parla del privato di un personaggio e, solo in secondo luogo, diventerà consapevolezza collettiva.

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