il colibrì recensione

Una vita tranquilla, almeno apparentemente, è quella immaginata da Sandro Veronesi nel suo romanzo vincitore del Premio Strega 2020. Una storia difficile da sintetizzare e ricca di temi importanti, che Francesca Archibugi porta in sala – a partire dal 14 ottobre (distribuito da 01 Distribution) – nel film omonimo Il Colibrì. Scelto come titolo d’apertura della rinnovata Festa del Cinema di Roma, e inserito nella sezione Grand Public dedicata al cinema per il grande pubblico, il nuovo film della regista di Vivere colpisce al cuore, ma non solo, visto il cast All-Star riunito per l’occasione.

 

Quelli di Nanni Moretti e Pierfrancesco Favino spiccano tra i nomi di Kasia Smutniak, Berenice Bejo, Laura Morante, Benedetta Porcaroli, Massimo Ceccherini, Fotiní Peluso e Pietro Ragusa – tra gli altri – ed è paradossalmente tra loro due che si sviluppa il rapporto più importante in Il Colibrì. Tra tante relazioni, amorose o familiari, grandi amori e insopportabili dolori, la tensione che lega Daniele e Marco cambia con il passare del tempo e li lega sempre di più, dalle prime preoccupazioni professionali all’atto più estremo di vicinanza e amicizia.

Chi è il Colibrì?

Favino (che per una curiosa coincidenza, da anni convive felicemente con il soprannome di Picchio) è Marco Carrera, al quale sin da piccolo viene affibbiato quel nomignolo, per via di uno squilibrio ormonale che non lo faceva crescere e sviluppare come dovuto, ma che resta per tutta la vita il Colibrì, sebbene una cura sperimentale gli avesse permesso di avere infine una statura normale. Ed è la sua storia che seguiamo, nella sua quasi interezza, di ricordo in ricordo, saltando da un’epoca a un’altra, in un tempo liquido che va dai primi anni ‘70 fino a un futuro prossimo – il 2030 – nel quale lo Stato italiano si è finalmente deciso a dare una prova da tempo richiesta di umanità e civiltà.

Ma tutto inizia da bambini, quando al mare Marco conosce Luisa Lattes, una ragazzina bellissima e inconsueta. Una passione idealizzata e quindi ineguagliabile, un amore che mai verrà consumato e mai si spegnerà, per tutta la vita. A differenza di quello per la moglie Marina, madre della figlia Adele. Tra coincidenze incredibili e prove durissime, Marco passa da Roma a Firenze, spesso accompagnato dal vigile e amorevole sguardo di Daniele Carradori, lo psicoanalista di Marina, che insegnerà a Marco come accogliere i cambi di rotta più inaspettati.

La forza della vita

Dicevamo della difficoltà di adattare in maniera ineccepibile un intreccio tanto articolato, ricco di personaggi e di connessioni diverse a seconda del momento storico vissuto attraverso il costante alternarsi di passato e presente. Un reticolo esistenziale notevole, che tra momenti da ricordare e parentesi didascaliche non può che dare a tratti la sensazione di non riuscire a legare ugualmente tutti gli elementi. Nonostante la presenza di alcune costanti, veri fulcri della narrazione.

In primis la telefonata che riceve Marco, con cui si apre Il Colibrì e che rivediamo – ogni volta inquadrata diversamente, sempre più da vicino – mano a mano che prende forma il personaggio di Favino e si forma la sua consapevolezza del proprio vissuto. Che passa anche dalle rare e complicate riunioni familiare e dall’evoluzione del suo amore – idealizzato – per la onnipresente Lucia Lattes di Bérénice Bejo. Altro personaggio chiave, testimone distante e ambiguo, forse la figura femminile più interessante tra le varie (dalla Morante, alla sempre eccessiva Smutniak).

Non è mai facile assistere a una agonia, l’altrui come la propria, ma in quella che Il Colibrì descrive come la “strenua lotta che facciamo tutti noi per resistere a ciò che talvolta sembra insostenibile” resta la speranza. Di trovare la felicità, dopo tante finzioni e paure, di scoprirsi protagonisti di una vita vera, di non aver sprecato il proprio tempo – come un colibrì, costretto a uno sforzo “assurdo” per restare fermo – e anzi di aver trovato il coraggio di diventarne padroni e disporne nel momento più delicato di questo lungo addio.

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