Il Superstite: recensione del film di Paul Wright

Il Superstite

Il Superstite, opera prima del regista inglese Paul Wright, già premiato con numerosi premi per altrettanti cortometraggi, è a metà tra storia d’amore, dramma psicologico e favola. Anzi, di storie d’amore ce ne sono due: quella di un ragazzo per il fratello, qualcosa che va oltre il mero discorso fisico o mentale e sfocia in un morboso attaccamento quasi dovuto; e l’amore di una madre (Kate Dickie) per un figlio, più forte di qualunque cosa. Il dramma psicologico si consuma invece nella figura di Aaron, perché già da prima dell’incidente è visto come il più strano di tutti, la persona da evitare, il disadattato. E infine la favola, retta da echi leggendari e superstiziosi, che fanno leva sul “Se si crede davvero ad una cosa, allora è possibile”.

 

In Il Superstite Aaron (George Mackay) è un ragazzo che vive in una piccolo villaggio della Scozia. È l’unico superstite di un incidente avvenuto in barca, dove sono morte cinque persone, tra cui il fratello maggiore a cui era molto legato. Ritenuto colpevole dal villaggio dove vive, incompreso, psicologicamente instabile, Aaron non vuole credere che il fratello sia morto e farà di tutto per riprenderselo dal mare, per lui il vero colpevole dell’accaduto.

Siamo all’interno di un crescendo, ma se ne percepisce la sensazione solamente a film inoltrato. E non è un discorso di accelerazioni improvvise dello script, ma di una panoramica completa sul protagonista che tarda ad arrivare. Questo sarebbe giustificato se si volesse far scoprire il personaggio piano piano o si volessero lasciare sprazzi di mistero per esplodere poi nel finale; ma qui sembra più che altro che i dettagli affiorino per essere al servizio di una drammaticità generale e non per arricchire minuziosamente una storia o la figura del protagonista.

I continui flashback, visivamente e banalmente sfocati, che richiamano l’infanzia dei due ragazzi, sono espedienti al servizio della sceneggiatura, ma spezzano troppo continuamente la narrazione, che invece avrebbe bisogno di un andamento più fluido. Come pure i pensieri a voce alta del protagonista, a cavallo tra il reale e l’onirico, una sorta di trascrizione sonora dei suoi incubi, che irrompono all’interno delle immagini. Per larghi tratti, tutto questo di traduce in noia.

Il Superstite è un film attraente, con un’atmosfera che convince, accompagnata da inserti sonori appropriati, in un senso dell’immagine nel complesso molto affascinante. Wright tenta di mettere al centro la situazione psicologica (in tutti i sensi) di un personaggio, talvolta portandola all’estremo, per raccontare una storia che odora di fiaba , ma che ne supera i limiti. Ma lo fa spesso annoiando, frammentando troppo la continuità narrativa. È come quelle canzoni, quelle ballate riuscite a metà, dove la strofa è meglio del ritornello.

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