Io sono l’abisso, la recensione del film di Donato Carrisi

Il regista e scrittore torna sul grande schermo con una nuova pellicola thriller che però, in un incredibile plot twist, assume aspetti sentimentali

Io sono l'abisso recensione film

Donato Carrisi torna al cinema con il suo terzo film, Io sono l’abisso, adattamento del suo omonimo romanzo pubblicato dalla casa editrice Longanesi nel 2020. La pellicola, che mette in scena la psiche del genere umano, volge lo sguardo verso il background dei serial killer e su come questo influenzi la loro “trasformazione in mostri”. Il film sarà nelle sale dal 27 ottobre, distribuito da Vision Distribution e accompagnato dalla colonna sonora composta da Vito Lo Re ed edita da Edizioni Curci e Palomar.

 

Io sono l’abisso, la trama

Un paese sul lago di Como. L’uomo che pulisce, un netturbino la cui vita è piena di solitudine, trova nella spazzatura che raccoglie l’unica fonte di verità. Nella casa in cui abita, oltre una porta laccata di verde, un uomo sconosciuto gli parla. Dietro il suo aspetto apparentemente normale, si cela un serial killer che segue uno schema ben preciso: uccidere donne bionde e avanti con l’età.

La Ragazzina dal ciuffo viola è un’adolescente che sta annegando in un lago; il tentato suicidio di lei è frutto di una vita che non riesce a sostenere, fatta di tesori materiali ma non affettivi. La Cacciatrice di mosche, è una “pazza” a cui la vita ha tolto tanto, e che adesso combatte affinché le donne vittime di violenza possano avere una voce e possano salvarsi. Tre vite apparentemente separate le une dalle altre ma che ad un certo punto si incontrano e, inevitabilmente, si intrecciano. Cosa le lega? Gli omicidi perpetrati da parte dell’uomo.

La potenza distruttiva della solitudine

Premessa: i protagonisti di Io sono l’abisso non hanno nomi. E neppure degli attori interpreti bisogna saperlo. La scelta, spiegata in una lettera del regista al suo spettatore, è puramente artistica. È come se attribuire un nome al personaggio lo marchiasse con un’etichetta di riconoscimento, ponendo quasi una distanza e impossibilitando l’altro ad andare oltre la sua identità. Al contrario, privandolo di qualcosa, non associando i nomi a nessun volto, avviene quel processo essenziale nel cinema: l’immedesimazione da cui nasce l’empatia.

Carrisi si pone dunque un obiettivo: condurre lo spettatore ad empatizzare con i protagonisti, in primis con L’uomo che pulisce, ossia il serial killer. Un modus operandi insolito e per certi versi anche anomalo, ma necessario per il regista affinché possa portare in scena uno stato sociale e umano che purtroppo non è raro al giorno d’oggi: la solitudine. Quella solitudine che nel percorso chiamato vita tocca l’esistenza di ognuno almeno una volta. A volte questa morbosa compagna arriva, si annida e si avvinghia. Altre volte, per fortuna, è solo di passaggio; dopo aver salutato, chiude la porta e scompare.

Nel caso dell’Uomo che pulisce questa “strana amica” ha preso il sopravvento, e ha alimentato quei mostri che l’assassino si trascina dietro come un grande e pesante fardello da quando era piccolo. Un susseguirsi di flashback, alternati ad attimi del presente, strutturano e destrutturano il personaggio; portano lo spettatore indietro nel tempo e mostrano senza pietà il trattamento “anti materno” di Vera, una madre che tutto vuole tranne un figlio. L’Uomo, qui ancora bambino, viene poi seguito mentre passa da un istituto all’altro, deriso dai suoi compagni di stanza e, ancora una volta, abbandonato.

È la “ricostruzione” della sua infanzia che permette l’identificazione con il serial killer, una persona lasciata al suo triste destino, violentata psicologicamente e privata dell’amore genitoriale nel momento in cui più ne aveva bisogno. Il passato lo ha plasmato nel mostro che è oggi, e nonostante la sua psiche deviata cerchi di condurlo costantemente verso la strada “della morte”, lui ad un certo punto prova a redimersi salvando la Ragazzina nel lago. E inizia a proteggerla. Perché lei è sua amica. Ed è a lei che, nel suo modo controverso, lui regala quell’affetto di cui non ha mai sentito il sapore; lo fa con qualcuno che, alla fine, rovescia la sua posizione di mostro, tramutandolo nel salvatore.

La trasposizione di un racconto crudo

Attraverso un montaggio alternato, la macchina da presa invade la vita dell’Uomo che pulisce, della Ragazzina e della Cacciatrice di mosche; essa li segue nei loro tormenti, nella psiche fragile e nella loro eterna alienazione. Io sono l’abisso dispone così di tre trame, nessuna con una valenza inferiore rispetto all’altra, ma con impatti visivi ed emotivi differenti che Carrisi mostra allo spettatore attraverso tecnica e stile.

Quando si segue L’uomo che pulisce, le inquadrature sono oblique, distorte. Un parallelismo sottile con la mente dell’assassino e i suoi malsani pensieri. L’alternanza di luce e ombra, poi, che avvolgono il suo volto in continua agonia, enfatizzano la combutta fra bene e male insita in lui. Per le due donne, invece, il regista predilige i primi piani sul volto, gli occhi e soprattutto sul loro sguardo smarrito.

L’Uomo, la Ragazzina e la Cacciatrice, ognuno con la sua storia e le proprie profonde ferite, sono legati simbolicamente da un filo rosso comune: sono perduti. E sono tutti e tre quasi incapaci di relazionarsi con una società che non sembra capirli. Anzi, a volte non vuole. Sono, per motivi differenti, alla ricerca costante di quella luce proveniente dal faro, quando la tempesta in mare aperto non permette di vedere l’orizzonte e si ha bisogno di un segnale che faccia ritrovare la strada di casa.

Io sono l’abisso diventa perciò un manifesto del dolore figlio della solitudine, che può avere forme e conseguenze diverse in base alla persona di cui si “ciba”. È un’opera che, ad un certo punto, scioglie la suspense del thriller e regala un sentimento di compassione verso qualcuno che, seppur non sia giustificabile, si sente il bisogno di abbracciare. Spesso i mostri diventano tali perché altri prendono il sopravvento nella loro vita, distruggendola. Donato Carrisi ha portato in scena il loro background, insediandosi senza filtri nella loro psiche. Spente le luci in sala, il cuore si apre. È pronto ad accogliere la storia nella sua interezza.

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RASSEGNA PANORAMICA
Voto di Valeria Maiolino
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Valeria Maiolino
Classe 1996. Laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza, con una tesi su Judy Garland e il cinema classico americano, inizia a muovere i primi passi nel mondo della critica cinematografica collaborando per il webzine DassCinemag, dopo aver seguito un laboratorio inerente. Successivamente comincia a collaborare con Edipress Srl, occupandosi della stesura di articoli e news per Auto.it, InMoto.it, Corriere dello Sport e Tutto Sport. Approda poi su Cinefilos.it per continuare la sua carriera nel mondo del cinema e del giornalismo, dove attualmente ricopre il ruolo di redattrice. Nel 2021 pubblica il suo primo libro con la Casa Editrice Albatros Il Filo intitolato “Quello che mi lasci di te” e l’anno dopo esce il suo secondo romanzo con la Casa Editrice Another Coffee Stories, “Al di là del mare”. Il cinema è la sua unica via di fuga quando ha bisogno di evadere dalla realtà. Scriverne è una terapia, oltre che un’immensa passione. Se potesse essere un film? Direbbe Sin City di Frank Miller e Robert Rodriguez.
io-sono-labissoDonato Carrisi porta sul grande schermo un'analisi profonda del background di un serial killer, e lo fa con un obiettivo: permettere allo spettatore di provarne compassione. La riuscita dell'intento avvia un altro processo fondamentale nel cinema: l'immedesimazione.