La Buca: recensione del film di Daniele Ciprì

Ne La Buca è un cane a far incontrare Oscar (Sergio Castellitto), un avvocato misantropo dedito alle truffe, e Armando (Rocco Papaleo), appena uscito di galera dopo aver scontato ingiustamente 30 anni. Prima Oscar vuole far causa ad Armando, adducendo a pretesto di essere stato morso dal cane, ma quando viene a conoscenza della storia di Armando, pensa subito di far riaprire il caso dell’ex detenuto e ottenere un risarcimento milionario. Così i due, assieme alla barista Carmen (Valeria Bruni Tedeschi), amica di Oscar, si mettono a lavoro per scovare testimoni e indizi utili, mentre si fanno compagnia, dando un po’ di colore alle loro esistenze. Non tradisce la chiave surrealista e grottesca che gli è propria Daniele Ciprì – con La Buca al secondo lavoro da regista senza il collega Maresco – ma si sposta schiettamente sul terreno della commedia rispetto al precedente E’ stato il figlio.

 

La Buca, il film

Siamo in una città indeterminata, in un universo immaginario con un’estetica tra cartoon, fiaba e surrealismo alla Tim Burton (nel film ci sono citazioni dichiarate, come quella di Frankenstein Junior, ma anche rimandi ed evocazioni che lo spettatore si può sbizzarrire a rintracciare). Estetica declinata con grande maestria fin dall’inizio, dai titoli di testa. Ne risulta una “confezione” molto godibile e curata, cui il regista aggiunge anche il tocco della sua inconfondibile fotografia dai colori desaturati (quello che lui stesso chiama “il bianco/nero col colore”).

I protagonisti della commedia sono maschere: molto caratterizzati, con espressioni, tic e movenze tipiche e ricorrenti – all’eloquio svelto e ai movimenti rapidi di Oscar si contrappone la fissità di sguardo di Armando e il suo tono calmo. Questa scelta è purtroppo un’arma a doppio taglio: vincola molto gli attori nella loro interpretazione, col risultato che, se il primo incuriosisce e fa sorridere nella sua stravaganza, il secondo risulta piatto. Inoltre, tiene lo spettatore distante, osservatore ma non partecipe.

Anche la trama soffre dello stesso meccanicismo dei suoi personaggi: procede in modo prevedibile, con colpi di scena ampiamente intuibili, senza spunti realmente originali. Soggetto e sceneggiatura si devono, oltre che al regista, a Massimo Gaudioso, già collaboratore di Matteo Garrone e di Ciprì nella precedente opera, Alessandra Acciai (produttrice con Malìa) e Miriam Rizzo.

Il lavoro è percorso dalla satira sull’illegalità, sulle furberie nostrane, sull’insipienza delle istituzioni: tutto giusto, ma la satira graffiante resta spesso lontana, mentre si preferisce la comicità più immediata delle gag, che regala solo qualche sorriso. Forte è la sensazione della messa in scena. Nei territori della commedia più pura, e in un non luogo lontano dalla sua Sicilia, Ciprì non sembra trovarsi a suo agio, come invece in quelli più scuri del dramma, in cui ha dimostrato originalità, non solo visiva.

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