Con La Llorona – Le lacrime del male, il mondo popolato di demoni e possessioni nato dalla mente di James Wan con L’evocazione – The Conjuring si arricchisce di un nuovo capitolo. Dopo i successi di Annabelle e The Nun, l’universo horror più redditizio degli ultimi dieci anni tenta di espandersi ancora, ma questa volta la formula mostra segni evidenti di stanchezza.
Diretto da Michael Chaves, il film prova a inserirsi nella tradizione del franchise con un racconto autonomo, legato solo marginalmente alle vicende principali grazie al breve ritorno del padre Perez (Tony Amendola), già visto nel primo Annabelle. Un piccolo anello di congiunzione che, però, non basta a dare spessore o continuità all’universo narrativo.
Ambientato negli anni Settanta, come molti dei film del Conjuring Universe, La Llorona sfrutta l’epoca più come estetica che come sostanza. Qualche automobile d’epoca, uniformi di polizia e lampioni tremolanti tentano di evocare il fascino rétro del cinema horror classico, ma l’atmosfera si dissolve presto, lasciando spazio a un racconto privo di reale tensione o coerenza visiva. L’intento di costruire un film “period piece” alla Carpenter resta incompiuto, ridotto a un semplice sfondo di cartapesta che non aggiunge né mistero né profondità al racconto.
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Tradizione, horror e disillusione
Il regista Michael Chaves, qui al suo esordio alla regia di un lungometraggio (prima di ereditare da Wan The Conjuring 3), sceglie di attingere al folklore messicano per dare nuova linfa alla saga. La Llorona, figura leggendaria del Sud America, è la “donna che piange”: un’anima in pena che vaga in cerca dei suoi figli, annegati da lei stessa in un gesto di disperazione e follia. Il potenziale mitologico del personaggio è enorme — archetipico, tragico e ricco di implicazioni religiose — ma il film non riesce a restituirne la forza simbolica. L’elemento folklorico viene trattato come semplice “esotismo”, una cornice ornamentale che sostituisce l’approfondimento culturale con l’effetto spavento.
In questo senso La Llorona – Le lacrime del male paga il prezzo di una scrittura povera e discontinua. La sceneggiatura di Mikki Daughtry e Tobias Iaconis fatica a tenere insieme le linee narrative e a giustificare le azioni dei personaggi. Le scene di paura, costruite su meccanismi prevedibili, si affidano a un montaggio sincopato e a un abuso di jump scare che perde progressivamente efficacia. Chaves dimostra un buon controllo formale nella gestione della luce e dell’ombra, ma il film manca di tensione crescente: ogni sequenza sembra annullare la precedente, generando un senso di immobilità narrativa.
Il rapporto tra la protagonista Anna Tate-Garcia (Linda Cardellini) e la creatura avrebbe potuto offrire un interessante parallelo tra due madri unite dal dolore, ma questa dimensione emotiva resta in superficie. Dove Wan sapeva unire terrore e spiritualità, Chaves rimane intrappolato in un’estetica del “mostro che appare e scompare”, senza mai approfondire il trauma che alimenta la maledizione.
Linda Cardellini e il cast: un’occasione mancata
Linda Cardellini è, senza dubbio, l’elemento più solido del film.
L’attrice costruisce un personaggio credibile, una madre segnata
dalla perdita che tenta di proteggere i propri figli mentre il
confine tra realtà e superstizione si dissolve. La sua
interpretazione dà spessore emotivo a una storia che, altrimenti,
resterebbe ancorata a una superficie di cliché.
Accanto a lei, Raymond Cruz nei panni del curandero Rafael Olvera
introduce una figura potenzialmente interessante, un ex sacerdote
che combatte il male con rimedi tradizionali. Ma il personaggio è
scritto in modo stereotipato e perde credibilità nel momento in cui
diventa, involontariamente, la spalla comica del film. Anche
Patricia Velásquez, nel ruolo della madre che innesca la
maledizione, avrebbe meritato maggiore approfondimento: la sua
figura resta confinata a un’icona di paura senza spessore
psicologico.
Un horror senza atmosfera
Il più grande limite di La Llorona – Le lacrime del male è la sua incapacità di costruire atmosfera. Laddove i primi capitoli del franchise vivevano di silenzi, sospensione e sguardi, qui tutto è gridato e meccanico. Gli effetti visivi sono ben realizzati ma privi di eleganza, e la regia manca di quel respiro autoriale che aveva reso The Conjuring un horror sofisticato e non solo commerciale.
La pellicola sembra più interessata a rispettare i canoni del jump scare moderno che a creare un vero senso di inquietudine. Il folklore viene semplificato, la psicologia abbozzata, e il ritmo finisce per risultare artificioso, privo di picchi emotivi. La figura della Llorona, teoricamente simbolo universale del rimorso e della maternità negata, è ridotta a un fantasma generico: spaventoso ma senza identità. Il risultato è un horror che si guarda, ma non si ricorda.
Il fallimento del Conjuring Universe e la necessità di rinnovarsi
Nel suo tentativo di espandere il Conjuring Universe, La Llorona mostra quanto sia difficile mantenere coerenza e qualità in un franchise che sembra ormai svuotato della sua forza originaria. Se The Conjuring di Wan rappresentava la sintesi perfetta tra fede e paura, e Annabelle aveva almeno una mitologia coerente, questo nuovo capitolo appare come un prodotto di routine. Manca la visione, manca la mano autoriale. Chaves cerca di emulare il linguaggio visivo di Wan, ma ne perde l’anima: quella tensione spirituale che faceva del male qualcosa di tangibile e metafisico.
Nonostante qualche guizzo tecnico e l’impegno del cast, La Llorona – Le lacrime del male si rivela un film freddo, privo di pathos e incapace di aggiungere qualcosa di significativo all’universo di riferimento. Un’occasione mancata che dimostra come il terrore, senza emozione, diventi solo rumore.
La Llorona - Le lacrime del male
Sommario
Un horror visivamente curato ma privo di atmosfera e coerenza, che riduce una leggenda potente a puro esercizio di genere.

