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La Pecora Nera: recensione del film di Ascanio Celestini

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Il film La Pecora Nera di Ascanio Celestini, vincitore del “Premio Fondazione Mimmo Rotella” (dedicato alle opere più vicine alle arti figurative) allo scorso Festival del Cinema di Venezia, rappresenta l’ultimo atto di un percorso iniziato otto anni fa. Nel 2002 infatti Celestini, autore-attore teatrale romano ormai affermato e pluripremiato, insieme al Teatro Stabile dell’Umbria ha pensato di portare in scena un pezzo della nostra storia troppo spesso rimosso, come viene rimosso e accantonato tutto ciò che riguarda la malattia mentale.

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Si tratta, infatti, della storia dei manicomi italiani: da quando erano ancora “le carceri dei matti” a quando, nel 1978, la legge Basaglia ne inaugurò la lenta dismissione. È questo mondo che Celestini racconta dal 2005 nello spettacolo La Pecora Nera, proponendolo con successo in Italia e all’estero. Alle spalle, un lungo lavoro antropologico: tre anni di ricerche e interviste su tutto il territorio nazionale, per raccontare la Storia attraverso le storie di chi il manicomio l’ha vissuto – medici, ma soprattutto infermieri e pazienti.

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La Pecora Nera, il film

Molti forse vedranno un eccessivo autocompiacimento da parte dell’autore nel voler proporre, dopo lo spettacolo e il romanzo, anche il film. E saranno scettici circa la possibilità che nel passaggio al cinema Celestini, ottimo affabulatore, sia riuscito ad uscire dalla logica teatrale, basata sulla parola, in cui l’attore col solo ritmo e intensità del suo discorso deve catturare l’attenzione del pubblico. Diciamolo subito: c’è del teatro in La Pecora Nera. C’è una sceneggiatura molto fedele al testo dello spettacolo, scritta dallo stesso Celestini assieme a Ugo Chiti e Wilma Labate. E c’è indubbiamente molta parola, a partire dalla voce fuori campo dello stesso Celestini, nei panni del protagonista, che tiene le redini di tutta la storia, e sembra a tratti entrare in competizione con gli stessi personaggi. La parola resta per lui importantissima e non ci ha voluto rinunciare, anche a costo di apparire ridondante.

Qui però inizia la specificità del film: innanzitutto perché i personaggi evocati dalla voce narrante ora prendono corpo, interpretati da Giorgio Tirabassi (nel ruolo del coprotagonista), Luisa De Santis (la suora), Maya Sansa (Marinella adulta) e dallo stesso attore–regista – presente anche Peppe Servillo in un cameo. Prende corpo la storia di Nicola, entrato in manicomio da ragazzino, negli anni ’60, e lì rimasto per trent’anni. Difficile capire se sia pazzo anche lui, o sia stato solo sfortunato. È attraverso il cinema, proprio grazie all’immagine, che Ascanio Celestini porta lo spettatore a vedere con gli occhi di questo personaggio, a vivere la stessa esperienza da lui vissuta.

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Poi ci sono gli ambienti, quelli che in teatro erano solo evocati, ma che ognuno poteva immaginare a suo modo. Qui sono inequivocabilmente presenti in tutto il loro squallore, o meglio quello del padiglione 18 dell’ex manicomio di Roma, in cui sono state girate molte scene: stanze, corridoi, muri. Proprio un muro è protagonista, insieme a un paziente, di una delle sequenze più eloquenti del film, pur senza parole. Poi ancora, eminentemente cinematografico è il risalto dato ad alcuni oggetti-chiave, fondamentali per sciogliere le ambiguità del racconto (penso ad esempio alla dicotomia tra le scarpe e gli zoccoli). Spunti interessanti, dunque, nell’utilizzo del mezzo cinematografico, apprezzabili in un’opera prima come questa.

Ma i pregi de La Pecora Nera, al di là delle diatribe sulla perizia tecnica, risiedono altrove: ottima l’interpretazione degli attori. La capacità recitativa di Ascanio Celestini regge bene l’impatto con la fotografia cinematografica diretta da Daniele Ciprì, che scruta le espressioni e le movenze nei minimi dettagli. Giorgio Tirabassi riesce a rendere perfettamente la  bizzarria tipica della malattia mentale. Il tutto infatti è raccontato con parole ed immagini in maniera emotivamente coinvolgente, ma anche con leggerezza, destreggiandosi sapientemente tra comicità e dramma. Celestini ci guida nel mondo della malattia mentale, facendoci lasciare fuori dal cancello del “manicomio elettrico” pregiudizi e stereotipi sulla follia. Facendoci anche riflettere su come il nostro mondo moderno, figlio di quei “favolosi anni ’60”, non sia poi tanto diverso da quello del manicomio.

L’operazione, insomma, riesce, anche grazie al genuino coinvolgimento che parte da Celestini stesso, ed è fatto proprio da tutti gli attori. Lo dimostrano le loro interpretazioni. Lo dimostra il fatto che il regista abbia voluto accanto a sé nel cast anche il vero Nicola, che in realtà si chiama Alberto, e Adriano, un infermiere che ha lavorato per anni al Santa Maria della Pietà a Roma. Sono loro ad aver vissuto e raccontato a Celestini molto di ciò che vediamo nel film. L’attore affida proprio ad Alberto la chiusura dell’opera. Questo sì, un colpo di teatro che strappa l’applauso al pubblico in sala.

 
Scilla Santoro
Scilla Santoro
Giornalista pubblicista e insegnate, collabora con Cinefilos.it dal 2010. E' appassionata di cinema, soprattutto italiano ed europeo. Ha scritto anche di cronaca, ambiente, sport, musica. Tra le sue altre passioni, la musica (rock e pop), la pittura e l'arte in genere.

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