Pupi Avati racconta “Una sconfinata giovinezza”

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L’ultima produzione di Pupi Avati è il suo primo film che tratta di “una storia d’amore e in cui i protagonisti sono tutti e due molto belli”, riassume così scherzando il regista bolognese, a conclusione della conferenza stampa che si è tenuta oggi a Roma.

All’inizio dell’incontro, un pensiero viene dedicato al recentemente scomparso Vincenzo Crocitti , caratterista attivo in molti film italiani di genre tra gli anni ’70 e ’80 e che ha un piccolo ruolo in questo.

E’ innegabile che i due personaggi principali, Fabrizio Bentivoglio nel ruolo di Lino e Francesca Neri, che nel film interpreta la moglie di lui Chicca, siano entrambi molto affascinanti, nonostante l’attrice sia stata invecchiata, in primo luogo esteriormente, con una parrucca dai capelli grigi e poi “interiormente, attraverso il lavoro sul personaggio”, come dice lei stessa.

E’ anche chiaro che molti degli avvenimenti rappresentati nel film siano legati alla biografia stessa del regista, il quale sottolinea come da sempre nel suo cinema ami richiamare le sue origini emiliane alle quali sarà sempre legato.

Questa volta le origini vengono richiamate da diversi flashback che ci descrivono la vita di bambino del protagonista nella provincia di Bologna, alla quale tornerà, da adulto, in un percorso regressivo che gli fa perdere memoria del presente e del passato recente, ma che lo collega strettamente al passato della sua infanzia.

Il soggetto del film, un percorso doloroso di una moglie che vede suo marito, o meglio la sua mente, scomparire di giorno in giorno a causa dell’Alzheimer e decide di restargli accanto per trovare una via alternativa per comunicare con lui, è stato ispirato al regista da un evento familiare, e a chi gli fa notare che il film affronta il rapporto matrimoniale in maniera in realtà originale, narrando di una coppia che non esplode, ma cerca in tutti i modi di restare unita, Avati fa l’esempio della sua esperienza: 46 anni di matrimonio e la volontà di arrivare a 50 per sposare di nuovo la stessa donna.

Come se avesse sentito di essere stata chiamata in causa, la signora Avati telefona dopo pochi minuti al marito, che aveva lasciato il cellulare acceso, involontariamente o meno non possiamo saperlo.

Dopo questo siparietto spontaneo, il regista ritorna sulla tecnica utilizzata per raccontare nel modo più delicato e meno melodrammatico possibile la malattia ed il suo decorso, avvalendosi della collaborazione di alcuni esperti di Alzheimer e di altri medici più “mediatici”; nei titoli di coda tra i consulenti appare infatti anche il nome di Paolo Crepet, psicologo che molto spesso è presente nei salotti di seconda serata della nostra televisione.

Tra le domande obbligatorie c’è quella che riguarda l’esclusione del film dal concorso nell’ultima Mostra del cinema di Venezia, a cui Avati risponde affermando di essersene fatto una ragione, ha capito che il suo è un film controcorrente, che va in senso opposto rispetto al cinema italiano recente che, sostiene il regista, ormai produce solo commedie.

Gli viene fatto notare che il suo film ha alcuni aspetti orrorifici di stampo psicologico, alcune scene mettono alla prova Chicca quasi fino alla ridicolizzazione di questa, o sono molto dure per lo spettatore, come la scena in cui Lino picchia la moglie per poi tornare in sé; viene paragonato addirittura ad Haneke, che però Avati sostiene di non conoscere. Il regista però accetta di buon grado il termine “horror” ricordando i suoi esordi con “La casa dalle finestre che ridono”, in cui l’orrore era identificato nel non conosciuto che c’era aldilà di quelle finestre.

Alcuni degli attori presenti, Serena Grandi, Lino Capolicchio, Francesca Neri e Manuela Morabito, hanno lavorato insieme a Pupi Avati in diversi film e tutti riconoscono come la presenza del regista sul set e di suo fratello Antonio, produttore del film, creino un clima di familiarità e quotidianità facendo diventare l’intero cast una grande famiglia.

 

 

 

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