La quattordicesima domenica del tempo ordinario, la recensione del film di Pupi Avati

Sempre molto prolifico il regista bolognese racconta una storia molto personale affidandosi al Lodo Guenzi dei Lo stato sociale e ai più navigati Gabriele Lavia ed Edwige Fenech.

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Iperattivo Pupi Avati torna al cinema con La quattordicesima domenica del tempo ordinario, il suo nuovo film, “quello più autobiografico, come dice lui, che da giovedì 4 maggio Vision Distribution porta nei cinema italiani. Dopo Il signor Diavolo del 2019, e il precedente Dante (2022), il regista bolognese torna a raccontare il suo mondo, dopo quel Lei mi parla ancora che nel 2021 aveva raccolto importanti candidature ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento, che avevano consegnato il Premio Speciale della 75esima edizione al protagonista Renato Pozzetto.

 

Sogni, amore e amicizia: un triangolo

Allora protagonista di un’altra storia d’amore, finito per cause naturali, a differenza di quella al centro  del film che vede Gabriele Lavia ed Edwige Fenech interpreti della versione adulta dei due giovani protagonisti affidati al Lodo Guenzi dei Lo stato sociale e l’esordiente Camilla Ciraolo. Nel film Marzio Barreca e Sandra Rubin, due giovanissimi della Bologna anni ’70 con un sogno da realizzare. La musica per il primo, che con l’amico Samuele Mascetti (Nick Russo, e Massimo Lopez, quasi spaesato in una piccola parte) fonda il gruppo musicale I Leggenda e sogna il successo; la moda, per la ragazza, un fiore che aspira a diventare indossatrice.

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Qualche anno dopo, nel la quattordicesima domenica del tempo ordinario, Marzio sposa Sandra mentre Samuele suona l’organo. Quella ‘quattordicesima domenica’ diventa il titolo di una loro canzone, la sola da loro incisa, la sola ad essere diffusa da qualche radio locale. Ma è l’apice di un’epoca destinata a finire, come anche i rapporti tra i tre, che cambiano attraverso delusioni e tradimenti reciproci, che scopriamo vedendone i drammatici effetti che avranno nel futuro.

La quattordicesima domenica del tempo ordinario – Nostalgia canaglia

Quanto è lecito, e sano, restare aggrappati ai propri sogni? Rinunciare a tutto, o quasi, per realizzarli o vivere di essi nel tentativo di farne realtà? Non c’è una risposta, e forse nessuno dovrebbe permettersi di darne. Anche se in quello che Pupi Avati definisce come il proprio film “più sincero e autobiografico” la rilettura del passato messo in scena è decisamente amara e dolorosa. Una prova di coraggio per il regista bolognese – un’altra dopo il suo Dante – che stavolta rischia di non riuscire a raggiungere il pubblico o a farlo empatizzare con i personaggi messi in scena.

Divisi molto nettamente, come i piani temporali della narrazione, tra un livello intriso di nostalgia – soprattutto per quanti in gioventù hanno amato la Fenech e Sydne Rome (qui nel ruolo della madre di Marzio) – e quello dominato dalle ossessioni urlate di un poco coinvolgente Guenzi. Che non aiutano a trovare un equilibrio del quale probabilmente una confessione così viscerale non avrebbe bisogno, ma che avrebbe aiutato a restare in carreggiata tra ellissi che non suscitano le suggestioni volute e il ricco catalogo di immagini d’epoca e di ricordi come quello del chiosco di gelati di Romoli, “dove le cose che sognavi, accadevano”.

Purtroppo, stavolta la magia non riesce, e i sogni si confermano più deboli della realtà. Ben inquadrata, nello stile del regista, e che sicuramente meritava esser raccontata, magari senza affidarsi al solo profondo senso di tristezza e sconfitta che pervade i personaggi, per il resto in balia di interpretazioni troppo caricate, o troppo poco. Le illusioni alla fine restano nel passato, insieme all’innocenza, e sulla carta, ammesso che certe forzature non fossero già nella sceneggiatura. E a noi non rimane che sperare che l’insistito sfruttamento del piano onirico sia di buon auspicio per il prossimo horror che Avati ha detto di essere sul punto di girare e trovi miglior collocazione nei progetti della Horror Factory che il regista sogna di costruire.

Sommario

Le illusioni alla fine restano nel passato, insieme all'innocenza, e sulla carta, ammesso che certe forzature non fossero già nella sceneggiatura. E a noi non rimane che sperare che l'insistito sfruttamento del piano onirico sia di buon auspicio per il prossimo horror che Avati ha detto di essere sul punto di girare e trovi miglior collocazione nei progetti della Horror Factory che il regista sogna di costruire.
Mattia Pasquini
Mattia Pasquini
Nato sullo scioglimento dei Beatles e la sconfitta messicana nella finale di Coppa del Mondo, ha fortunosamente trovato uno sfogo intellettuale e creativo al trauma tenendosi in equilibrio tra scienza e umanismo. Appassionato di matematica, dopo gli studi in Letterature Comparate finisce a parlare di cinema per professione e a girare le sale di mezzo mondo. Direttore della prima rivista di cinema online in Italia, autore televisivo, giornalista On Air e sul web sin dal 1996 con scritti, discettazioni e cortometraggi animati (anche in concorso al Festival di Cannes), dopo aver vissuto a New York e a Madrid oggi vive a Roma. Almeno fino a che la sua passione per la streetart, la subacquea, animali, natura e ogni manifestazione dell'ingegno umano non lo trascinerà altrove.

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Le illusioni alla fine restano nel passato, insieme all'innocenza, e sulla carta, ammesso che certe forzature non fossero già nella sceneggiatura. E a noi non rimane che sperare che l'insistito sfruttamento del piano onirico sia di buon auspicio per il prossimo horror che Avati ha detto di essere sul punto di girare e trovi miglior collocazione nei progetti della Horror Factory che il regista sogna di costruire.La quattordicesima domenica del tempo ordinario, la recensione del film di Pupi Avati