Avrebbe dovuto partecipare al Festival di Cannes del 2020, quando l’edizione fu annullata a causa della pandemia Covid, tra i vari film inseriti in una selezione ufficiale virtuale e non competitiva, ma da allora il Last Words di Jonathan Nossiter (Sunday, Mondovino) ha continuato a viaggiare nel circuito: da Deauville a Sitges, a partire da Il Cinema Ritrovato, promosso dalla Cineteca di Bologna, che dal 15 giugno lo distribuisce nei nostri cinema. Dando finalmente la possibilità al pubblico italiano di vedere una favola profetica dal cast importante, visto che intorno al sorprendente Kalipha Touray – diciannovenne esordiente scoperto dal regista nel campo dei rifugiati di Palermo – vediamo ruotare Nick Nolte, Charlotte Rampling, Stellan Skarsgaard e Alba Rohrwacher.
Il cinema e la fine dell’Umanità
Solo alcuni tra gli abitanti del Pianeta ricordati dal protagonista – e ultimo sopravvissuto – nel suo racconto. Che dal 2086 ci riporta indietro a due anni prima, su una Terra abbandonata nella quale non ci sono più elettricità o macchinari e i pochi sopravvissuti al disastroso declino dell’Umanità e alle grandi alluvioni si aggirano guidati da una misteriosa “Chiamata“. Che da Londra a Parigi, dove viveva con la sorella in una stanza tappezzata di film, spinge Kal (Touray) verso Bologna, in cerca della Cineteca. Qui trova Shakespeare, un vecchio dallo sguardo selvaggio che vive nei sotterranei del palazzo ormai abbandonato e che lo introduce a un mondo fatto di immagini e ricordi. Quelli stessi che i due inizieranno a ricreare una volta arrivati in Grecia in quella che sembra essere una comunità di uomini e donne destinata all’estinzione.
La profezia di Jonathan Nossiter
Come nel libro Mis últimas palabras di Santiago H. Amigorena, la causa dell’apocalisse sembra esser stata un virus, della tosse, come ci dice Nossiter, che ci racconta di un mondo bagnato da un mare rosso nel quale agli sono concessi solo cibo in polvere e un litro d’acqua a settimana. Una favola ecologica con la quale il regista di Washington cerca di trasmettere amore e solidarietà anche nella catastrofe, ambientale prima di tutto, tema a lui molto caro, vista l’esperienza accumulata nel suo orto-laboratorio in Italia, dove coltiva centinaia di varietà di vegetali frutto della ricerca di semi ancestrali, tramandati da generazioni.
Dove lo ha bloccato la pandemia, a Bolsena, alla fine della lavorazione, dopo che durante le riprese la stessa Rampling aveva convinto Nolte a non tornare oltreoceano nonostante l’incendio della sua villa di Malibu. Una conferma della forte comunione di intenti che ha unito tutto il cast e dell’amore per il nostro Paese, dove è stato girato il film – tra il Parco Archeologico di Paestum e Bologna – e che vediamo citato a più riprese (come nel murales dedicato a Lucio Dalla o gli spezzoni di Risate di gioia con Totò e Anna Magnani).
Tra memorie del passato, in fuga dal futuro
Cinema, libri, musica e pittura sono le armi con le quali il regista sceglie di combattere, e alle quali si affidano i momenti più edificanti in questa lunga apologia dell’ingegno umano e della capacità creativa, anche della Natura. Una cronaca di una morte annunciata, stando a quanto ci viene spiegato nel prologo, che mentre non consente speranza allo spettatore, lo lascia con un monito, e un suggerimento. Che il regista esplicita: “il pianeta è lì, a mezzo millimetro dal crollo totale, che può succedere dal un giorno all’altro. Ho voluto mettere il pubblico davanti a un futuro possibile, per spingerlo a pensare a tutte le ragioni per lottare e non ritrovarsi a quel punto”.
Un messaggio che sarebbe bello credere qualcuno potesse cogliere, o almeno estrapolare ed evidenziare in una narrazione troppo prolissa e involuta, che alterna momenti di regressione belluina e di violenza, ma che poi insiste sulla capacità espressiva della triade di vecchie glorie Nolte, Rampling & Skarsgaard affidandosi ai loro virtuosismi più che privilegiare equilibrio e coerenza. Anche perché nemmeno la rappresentazione idilliaca di una comune tanto elevata etica e spiritualmente riesce a spazzare via la disperazione, anzi la acuisce.
Analogamente, il coinvolgimento intellettuale resta piuttosto fine a se stesso in questa distopia d’autore nella quale il cinema è insieme mezzo e fine, nella quale la vita resta sullo schermo, bidimensionale. Almeno fino alla definitiva consapevolezza dell’inutilità di una tanto magra consolazione e della solo apparente centralità del racconto per la sopravvivenza della specie. Tutti elementi che fanno di questo Last Words un film utopico fuori tempo massimo, al quale abbandonarsi, nel quale fuggire, ma lontano dal mondo al quale vorrebbe parlare, forse non solo stilisticamente.
I film citati in Last Words di Jonathan Nossiter
- Tarzan l’uomo scimmia di W.S Van Dyke (1932)
- Bestia di Aleksander Hertz (1917)
- Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij (1966)
- La palla nº 13 (Sherlock Jr.) di Buster Keaton (1924)
- Metropolis di Fritz Lang (1927)
- I dimenticati (Sullivan’s Travels) di Preston Sturges (1941)
- Tampopo di Jûzô Itami (1985)
- Risate di gioia di Mario Monicelli (1960)
- An Interview with Dennis Potter di Melvyn Bragg (Channel 4, 1994)
- L’innaffiatore innaffiato di Louis Lumière (1895)
- Un chien andalou – Un cane andaluso di Luis Buñuel (1929)
- Candy Says di Beth Gibbons (2003)
- L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov (1929)
- Monty Python – Il senso della vita di Terry Jones, Terry Gilliam (1983)
- Le Squelette Joyeux di Auguste and Louis Lumière (1898)
- Citty Citty Bang Bang di Ken Hughes (1968)
- Speedy Gonzales, Peppino Di Capri (1962)