Listening: recensione del film di Khalil Sullins

Listening

Trai titoli di fantascienza più interessanti del 2015 c’è il film Listening, diretto da Khalil Sullins con Thomas Stroppel, Artie Ahr, Amber Marie Bollinger, Christine. Haeberman.

 

La trama

David e Ryan sono due brillanti e intraprendenti studenti universitari impegnati a mettere in comune le proprie competenze in ingegneria informatica e biotecnica con le quali raggiungere un ambizioso quanto incredibile progetto: realizzare un dispositivo tecnorganico che permetta la ricezione e la lettura dei pensieri e dell’attività neurale del cervello umano. Trafugando di soppiatto le strumentazioni della facoltà e tenendo totalmente all’oscuro le proprie famiglie e le istituzioni accademiche, i due giovani portano avanti con discreto successo le proprie ricerche, finché l’incontro occasionale con la compagna di corso e promettente psichiatra Jordan costituisce finalmente l’ultimo tassello affinché la tanto agognata scoperta possa vedere la luce. Trovandosi fra le mani il nuovo miracolo della scienza del XXI° secolo, il gruppo ben presto capisce però che qualcosa non sembra andare per il verso giusto e che forse qualcuno di molto più potente e privo di alcuno scrupolo etico è già a conoscenza dell’invenzione e mira a usare questo straordinario congegno telepatico per scopi arcani e poco rassicuranti.

L’analisi

Il filosofo francese Michel Focault, senza aver mai potuto vendere direttamente coi propri occhi lo sviluppo delle tecnologie informatiche e di controllo a distanza cresciute nel corso degli ultimi due decenni del XX° secolo, già nei tardi anni ’70 aveva deciso di riconsiderare profondamente l’idea esposta dal collega tedesco Walter Benjamin di una società moderna caratterizzata dal principio della spettacolarità e del narcisismo mediatico, proponendo invece di leggere la nostra cultura postmoderna come una vera cultura della videosorveglianza, indicando cioè l’idea ormai radicata secondo la quale l’uomo ha sviluppato una tale consapevolezza (e dipendenza) dal fatto stesso di essere costantemente tenuto sotto osservazione dai dispositivi mediali da aver dato luogo a forme di autocontrollo e di autodisciplina anche in assenza di istituzioni e apparati che lo osservino per davvero.

Questa concezione panottica, per usare il termine tecnico di Focault, così radicata nel nostro immaginario collettivo contemporaneo, si nutrirebbe in prima istanza non tanto dalla pervasività dei dispositivi mediali impiegati dalle agenzie di controllo per gestire e organizzare (realmente o per scopi altri) la sicurezza e il benessere pubblico, ma più che altro dipenderebbe da questa ossessione, tutta postmoderna, di sentire su di sé sempre e comunque lo “sguardo dell’Altro”, consapevolezza che ci spinge da una parte a batterci e a rivendicare a gran voce la nostra privacy e dall’altra a esercitare noi stessi un continuo e insistente processo di controllo sugli altri attraverso un atteggiamento a metà strada fra la paranoia e il semplice voyerismo.

Se però, come diceva lo stesso filosofo francese, il cinema in quanto tale è un buon strumento per imporre nei soggetti autocontrollo e autodisciplina attraverso la dolce pillola dell’intrattenimento, allora non c’è da stupirsi più di tanto del fatto che lo stesso immaginario filmico, così come la letteratura distopica di matrice orwelliana e huxleyana prima di lui, abbia più volte fatto propria l’immagine e il desiderio concettuale non solo del controllo diretto della mente altrui, ma molto più candidamente il voler gettare un occhio dentro quell’oscura e labirintica materia grigia nella quale si annidano i nostri pensieri più reconditi.

Il cervello, quella fantomatica black box tanto ripudiata dagli psicologi comportamentisti e che invece gli altezzosi cognitivisti hanno contribuito a riscoprire e rivalutare proprio grazie al cinema nei tardi anni ’80, proprio il cervello in quello stesso decennio diveniva materia di interesse da parte di Croenenberg, che con Scanners già ci proiettava in presente dal sapore futuro popolato da individui dotati di grandiose capacità telepatiche ma già sotto il controllo di macchinazioni governative atte a impossessarsi di un dono così prezioso e potenzialmente letale. Il decennio successivo, pervaso dalla rivoluzione digitale e dall’ossessione incontrollabile e feticistica per le tecnologie informatiche ci ha regalato una profonda riflessione sulle implicazioni e le possibilità di una sincronicità fra mente e computer, attraverso opere come Johnny Mnemonic e Strange Days che hanno figurativizzato la metafora cognitivista della mente considerata come un calcolatore, incrementando la curiosità generale sul reale funzionamento dei nostri meccanismi sinaptici e nutrendo la sempre crescente ambizione, già messa in atto dalle ricerche neuroscientifiche di riuscire un giorno a decrittare i segreti più profondi del nostro subconscio.

Ed è proprio da queste premesse affogate in una curiosità latente e mai assopita che l’ambiziosa pellicola di Khalil Sullins prende il via, premesse che fin dai toni evocativi e ben più che espliciti del titolo sembrano essere la materia plastica da cui il giovane regista dichiara apertamente di voler prendere il via. Accantonando per un secondo le reminiscenze più o meno lecite che possono provenire dall’ottimo film omonimo del 2005 diretto dal sorprendente Giacomo Martelli (nel quale in realtà l’ascolto del titolo principale faceva riferimento alle tecniche di intercettazione e spionaggio telefonico delle polizie di mezzo mondo, a sua volta ulteriormente mutuato dell’ancor più inquietante e morboso Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnesmarck), Listening rimanda invece a ben altre tipologie di ascolto, un ascolto a distanza (come quello telefonico ), un ascolto wireless (come quello della radio) ma che ha come fonte/obiettivo principale la mente umana, lo scrigno dei segreti nel quale ognuno cela e custodisce, più o meno consapevolmente, ogni parte del proprio vissuto e ogni esperienza cosciente e inconscia.

Dirigendo e scrivendo di propria mano un film con tali ambiziose intenzioni, Sullins non ha certamente potuto resistere nel caricare la narrazione di numerose citazioni metafilmiche e riferimenti più o meno espliciti alla numerosa letteratura accademica e apocrifa che circonda il mare magnum della telepatia e delle scienze parapsicologiche, riuscendo però nell’intento di bilanciare in maniera onesta e intelligente le varie componenti e trarne un prodotto di genere che, seppur certo non brilli di fresco né tantomeno di una qualche impronta autoriale, a buon grado si può sicuramente etichettare come godibile e ben riuscito.

In prima istanza è possibile dividere il racconto in due parti ben distinte e marcate da un repentino cambio di stile visivo e registico che si fa notare, forse anche troppo a dire il vero, ma che aiuta sicuramente a leggere con maggiore chiarezza l’intento organizzativo dell’insieme. Si inizia con un primo capitolo nel quale si sviluppa discretamente la matrice fondante di natura fantascientifica, lasciando libero sfogo a tutto un nutrito immaginario tecnologico e videodigitale fatto di computer e consolle ammassate e collegate fra loro, un tripudio di cavi e marchingegni a intermittenza dal sapore casalingo e improvvisato, così come infatti improvvisato è il laboratorio-garage nel quale i due aspiranti inventori decidono di assemblare la loro infernale macchina e creare un miracolo di biotecnologia.

Senza insistere troppo su inutili spiegazioni tecniche né dare troppa importanza alla coerenza e alla fattibilità di un tale esperimento, il film descrive con discreto realismo le piccole vittorie e i grandi insuccessi che conducono i due amici, in seguito coadiuvati da un’affascinate quanto indecifrabile psichiatra in erba dal gusto nerd, verso il loro obiettivo. Se l’universo razionale e calibrato di David risulta difficilmente conciliabile a parole con l’estroversione e l’eccletticità del mondo di Ryan (una diversità di spazi e concetti che viene ben rappresentata dall’impiego di una fotografia differenziata che oppone cromatismi gialli e verdi), è proprio la presenza della perturbante (e conturbante) Jordan che porta disarmonia e scompiglio ad un rapporto tutto sommato equilibrato. Jordan, interpretata da una Amber Marie Bollinger senza troppe pretese ma comunque ottimale, è una figura ibrida, a metà strada fra una femme fatale e una nerd dal sapore cyberpunk, un personaggio destinato ad attirare su di sé non pochi sospetti.

Attraverso l’impiego di soluzioni visive semplici quanto efficaci, le quali strizzano l’occhio tanto al videoclip musicale di Michel Gondry quanto agli studi sulla visione stereoscopica, il primo capitolo procede sena sfrangiature sino alla creazione del marchingegno telepatico, evento che coincide però con altri due punti focali: la scoperta da parte della autorità accademiche degli esperimenti condotti dai due giovani (con i conseguenti problemi legali che né derivano e l’inevitabile incrinatura dei rapporti fra i due amici) e l’interessamento da parte di una oscura agenzia governativa circa i risultati delle scoperte telecinetiche. Ed è proprio da queste premesse che prende il via una seconda parte che si attesta sulle corde di un thriller spionistico che ricorda vagamente la serie di Bourne tanto quanto le puntate adrenaliniche di 24, un susseguirsi di colpi di scena, inseguimenti frenetici e oggetti i-tech che a lungo andare obiettivamente non fanno molto bene alla salute complessiva del progetto, appiattendo lo sviluppo della narrazione e trovando un punto di salvezza solamente nell’onirica sequenza della red room, una stanza a vetri oscurati che ricorda la teoria panottica del carcere progettato da Focault stesso, nella quale controllori specializzati tengono sotto costante monitoraggio i pensieri degli scienziati presenti nel laboratorio per evitare che essi possano ordire a loro volta complotti contro l’agenzia, soggetti che sono osservati senza sapere come e quando, dunque obbligati ad autodisciplinare la propria mente in maniera a dir poco grottesca.

Un gioco di osservatori e soggetti osservati, di controllori e controllati, che però porta con sé sempre e comunque un filosofico dilemma di base: se noi siamo osservati, allora chi osserva coloro che ci osservano? Nel corso delle sequenze finali della pellicola poi la tematica riguardante la capacità di poter spiare (o meglio, di ascoltare) i pensieri altrui diviene ben altro che un semplice attacco ai tentativi di certa governance contemporanea di violare la nostra intimità in nome della sicurezza nazionale (già Nemico pubblico di Tony Scott a fine anni ’90 aveva pensato a metterci in guarda da come la tecnologia sarebbe potuta giungere a tale scopo) e si assesta su una linea più morale che tecnica, più fanta che non scientifica, finendo per riacquisire il valore di una paternale sull’inviolabilità della sfera personale, dei sogni, delle speranze e bla bla bla…

Sullins, coadiuvato dalle eccellenti interpretazioni della coppia Thomas Stroppel e Artie Ahr, regge meglio che può lo sviluppo della storia e riesce a riportare sapientemente i remi in barca per evitare uno spiacevole naufragio, giocando con una certa soddisfazione con l’estetica asettica e cromaticamente simbolica della fotografia di Blake McClure e un montaggio che alterna benissimo tempi e dosaggi di inquadrature dense di immaginario postmoderno e tecnofeticistico, al quale contribuiscono le scenografie a metà strada fra minimal e new i-tech di Chelsea Turner, confezionando un prodotto semplice, chiaro e, seppur con qualche riserva di sceneggiatura e di evoluzione narrativa, ben diretto e strutturato.

Listening non vuole essere nulla di più di ciò che è in realtà, ovvero un ennesimo tentativo del cinema di usare le proprie storie e le proprie immagini per farci capire quanto pericolosa possa essere l’ambizione che ci spinge a voler desiderare di guardare gli altri senza preoccuparci di chi ci guarda, l’aspirazione di sapere tutto degli altri attraverso la tecnologia ma accettando di dover sacrificare un poco anche della nostra privacy per violare quella altrui. Per il momento ciò che le persone possono sapere di noi (e noi di loro) si riduce a una scarna biografia deducibile dai nostri dati, più o meno volontari, contenuti nel profilo di un social network, ma da qui allo spiare la nostra mente e i nostri pensieri il passo potrebbe non essere così lontano. Pensateci! E pensateci bene mentre vedete un film come questo, magari tra un’occhiata al vostro smartphone e una controllata all’ultimo post del vostro amico.

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Matteo Vergani
Laureato in Linguaggi dei Media all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, studiato regia a indirizzo horror e fantasy presso l'Accademia di Cinema e Televisione Griffith di Roma. Appassionato del cinema di genere e delle forme sperimentali, sviluppa un grande interesse per le pratiche di restauro audiovisivo, per il cinema muto e le correnti surrealiste, oltre che per la storia del cinema, della radio e della televisione.
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