Anni ’30, la Corea è in pieno periodo coloniale giapponese, due culture si incontrano e scontrano, così come due lingue, due uomini affamati di potere, due donne agli antipodi. Una serva, relegata a dormire in uno scompartimento scomodo e buio, adiacente a un piccolo corridoio rimediato alla buona, e una madama, anzi una Mademoiselle, un’elegante e ricca donna che subisce da una parte gli abusi dello zio, dall’altra le lusinghe di un conte con pochi scrupoli, interessato a conquistare il suo cuore per mettere le mani subito dopo sulla sua fortuna.
Queste almeno sono le carte che Park Chan-Wook mette in tavola in apertura di mano, ma come ben presto vi accorgerete si è in realtà appena entrati in un enorme gioco di specchi, dove i vicoli ciechi aprono a nuovi mondi possibili e i riflessi non corrispondono mai a ciò che sembrano (un po’ come i gufi in Twin Peaks…). Dopo aver diretto il suo primo film in lingua inglese, parliamo ovviamente di Stoker con Mia Wasikowska e Nicole Kidman, il regista coreano regala al suo pubblico un’altra prima volta, un film in costume. Un’opera mastodontica, sia sul piano delle scenografie che della messa in scena e del minutaggio (145 minuti totali), che in superficie appare come un’autentica trappola per le dita: l’autore ci chiede un pizzico di curiosità e divertimento al momento di inserire ingenuamente le falangi all’interno, appena però capiamo che qualcosa ci trattiene, ci tiene in trappola, l’espressione del nostro volto improvvisamente cambia e inizia dentro di noi una lotta di volontà, di pazienza e di nervi.
Mademoiselle, il film
Nella medesima situazione si trovano i quattro personaggi principali, attori di metafore e menzogne più grandi di loro stessi: se gli uomini combattono per mantenere preconcetti e tradizioni di una società arretrata, maschilista, materialista e volgare, le donne costruiscono un ponte verso il nuovo che siede al di là dell’orizzonte, verso il cambiamento, che fa più scandalo di una qualsivoglia pratica sessuale o di un’impiccagione nella foresta. Se in questi termini il discorso sembra quasi filare liscio, senza intoppi, sullo schermo si è incastrati in tre macro-parti da osservare con attenzione, poiché ognuna porta sul palcoscenico un diverso punto di vista della storia principale, che apparirà unica soltanto durante il sofferto finale.
I troppi specchi però possono ingannare lo spettatore quanto un regista, anche se questo ha alle spalle una carriera da fare invidia a chiunque; Mademoiselle può apparire infatti confuso in più momenti, senza direzione, eccessivamente pieno di elementi, nonostante la qualità assoluta della regia generale. Park Chan-Wook gioca con gli obiettivi, con le inquadrature, con la desaturazione, le lingue (il coreano e il giapponese sono sottotitolati con due colori diversi, per far comprendere al pubblico occidentale quando il passato si scontra con il presente), gli ambienti, facendo forse più del dovuto. L’esagerazione è però alla base dell’arte.