Mammuth: recensione del film di Benoĩt Delépine e Gustave Kervern

Mammuth

Con Mammuth l’intenzione dei registi Benoĩt Delépine e Gustave Kervern era quella di fare un film che fosse “allo stesso tempo divertente e commovente. Divertente perché confrontiamo un uomo socialmente disabile con una società moderna fuori della sua portata. Commovente per le stesse ragioni”.

 

E ci sono riusciti. Mammuth, presentato alla scorsa edizione del Festival di Berlino, è la storia di Serge Pilardosse (Gérard Depardieu), un corpulento operaio che, dopo una vita da lavoratore indefesso – mai un giorno d’assenza, mai un giorno di malattia –  è costretto, suo malgrado, ad andare in pensione.  Dopo l’indifferente commiato degli ex colleghi, si apre, per Serge, il baratro del non-lavoro: che fare ora? Come riempire le giornate? “Per fortuna”, ci pensa la burocrazia: al momento di ritirare la meritata pensione, infatti, Serge scopre che molti datori di lavoro si sono “dimenticati” di versargli i contributi.

Mammuth, il film

Per poter usufruire dei benefici pensionistici, Serge deve recuperare tutte le dichiarazioni mancanti. Incoraggiato dalla moglie (una straordinaria Yolande Moreau, la portinaia di Amelie Poulan), Serge decide di montare in sella alla sua vecchia Munch Mammuth e di far visita a i vecchi datori di lavoro. Inizia, così, un anacronistico viaggio “on the road” nei luoghi della sua giovinezza. Dei documenti mancanti, ovviamente, nemmeno l’ombra, ma Serge ritroverà molto di più: amici e parenti lontani, in particolare una nipote (Miss Ming), creatura ingenua e pura, che saprà restituire linfa a quel corpo grasso, goffo e sudicio, simile a quello di un mammut.

Meno caustico della precedente commedia dark del duo di cineasti francesi, Louise-Michel, Mammuth ci parla di tante cose.  Ci parla del mondo d’oggi, facendolo apparire come un pendolo che oscilla tra il cinico e il grottesco, dove la burocrazia sembra avere sostituito i sentimenti e l’umana comprensione, dove l’indifferenza – che spesso si tramuta in spietatezza – appare, a volte, come l’unica (re)azione possibile di fronte all’incapacità di sintonizzarsi e relazionarsi con gli altri. Ci parla delle odierne condizioni di lavoro, mostrandone tutte le contraddizioni e gli aspetti grotteschi, se non fossero, invece, tremendamente reali.

Ma, soprattutto, ci parla di quello che conta davvero, di quello che rimane quando tutto il resto sembra svanire o soccombere, stritolato nelle catene di montaggio della modernità: l’amore, la tenerezza che abbiamo dimenticato, il potere riconciliante delle origini, se stessi. Le note negative: l’espediente narrativo del fantasma del primo amore di Serge (interpretato da Isabelle Adjani), che nulla toglie e nulla da alla narrazione; una certa “vaghezza hippie”, che permea la fase della “rinascita” di Serge.  Mammuth è un film semplice e brutale, realistico e paradossale e Delépine e Kervern riescono, ancora una volta, a divertire e disturbare, interpretando al meglio l’aforisma di John Boynton Priestle: “La commedia, potremmo dire, è società che protegge se stessa con un sorriso.”

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