Con il sostegno produttivo di Cate Blanchett e una narrazione fortemente autobiografica, Shayda segna l’intenso esordio alla regia della cineasta iraniano-australiana Noora Niasari. Ambientato nella Melbourne del 1995, il film segue le vicende di una donna iraniana fuggita da un matrimonio abusivo e rifugiatasi in un centro di accoglienza per donne maltrattate, insieme alla figlia di sei anni. Una storia personale che diventa riflessione universale su violenza, maternità, cultura e libertà, raccontata con uno sguardo delicato ma penetrante.
Una fuga raccontata con pudore e tensione costante
Sin dalle prime scene, Shayda mette lo spettatore in uno stato di allerta. L’inquadratura stringe sui volti, gli spazi chiusi e protetti diventano prigioni emotive, il formato quadrato (4:3) aumenta la sensazione di oppressione. La protagonista del titolo (interpretata da una straordinaria Zar Amir-Ebrahimi) è sempre in fuga, anche quando apparentemente al sicuro. Ogni azione, ogni decisione, è accompagnata da uno strato invisibile di ansia. La violenza che ha subito non viene mai mostrata esplicitamente, ma è costantemente percepibile nel suo modo di muoversi, di parlare, di interagire con la figlia e con gli altri.
La regia di Niasari evita qualsiasi sensazionalismo e racconta tutto con pudore, scegliendo l’osservazione paziente e rispettosa dei gesti quotidiani. Persino l’ex marito Hossein, pur temibile, non è rappresentato come un mostro bidimensionale, ma come un uomo ambiguo, capace di manipolazioni affettive e sociali.
Un ritratto intimo e politico
Ciò che distingue Shayda da altri film sul tema della violenza domestica è la sua capacità di allargare il campo senza perdere l’intimità del racconto. Il nemico non è solo l’individuo, ma un sistema culturale e patriarcale che sopravvive al di là dei confini geografici. Anche dopo essere fuggita dall’Iran, Shayda continua a subire le pressioni della sua comunità in esilio, che la giudica e la isola per aver osato chiedere il divorzio. L’autonomia femminile viene vista come una colpa, e perfino il diritto alla custodia della figlia è messo in discussione.
Niasari affronta tutto questo senza mai trasformare Shayda in una vittima passiva. Anzi, la protagonista è mostrata come una donna determinata, capace di affermare la propria identità culturale senza piegarsi alle imposizioni più oppressive. La celebrazione del Nowruz, il Capodanno persiano, diventa simbolo di rinascita personale e di trasmissione consapevole delle radici alla nuova generazione.
Zar Amir-Ebrahimi e Selina Zahednia: un legame che commuove
Il cuore emotivo del film è il rapporto tra Shayda e la piccola Mona, interpretata con dolcezza e autenticità da Selina Zahednia. Il loro legame è fatto di sguardi, abbracci, gesti quotidiani che diventano atti di resistenza. In mezzo alla paura e all’incertezza, madre e figlia costruiscono uno spazio affettivo in cui è ancora possibile sorridere, ballare, raccontarsi favole.
Zar Amir-Ebrahimi, già premiata come miglior attrice al Festival di Cannes 2023 per Holy Spider, regala qui una performance ancora più sottile e intensa. Ogni emozione si legge nei suoi occhi, nel modo in cui trattiene il respiro o sorride per rassicurare la figlia. Anche la bambina riesce a restituire con naturalezza lo smarrimento e la confusione di chi vive un dramma senza comprenderlo fino in fondo. La scena in cui Shayda le insegna i significati degli oggetti legati al Nowruz è uno dei momenti più belli e significativi del film: un dialogo tra culture, generazioni, dolore e speranza.
Una regia empatica, mai invadente
Lo stile di Shayda è coerente con il suo contenuto. La regia non impone mai la propria presenza, ma si mette al servizio del racconto. Il lavoro sul sonoro è essenziale, quasi minimalista, e accompagna con discrezione le emozioni dei personaggi. Anche le musiche tradizionali e i momenti danzati non sono mai coreografici, ma spontanei, parte integrante della vita.
La sceneggiatura, ispirata all’infanzia della regista, è asciutta e ben calibrata. Ogni scena ha un senso, un respiro, una risonanza emotiva. Niasari costruisce un’opera prima matura e personale, che non chiede compassione, ma invita alla comprensione e al rispetto per un vissuto troppo spesso taciuto o banalizzato.
Shayda è un’opera sulla maternità come gesto politico, sulla libertà come conquista quotidiana, sulla possibilità di rinascita anche quando tutto sembra perduto. Con uno sguardo attento e pieno di amore, Noora Niasari firma un esordio che lascia il segno. E ci ricorda, con delicatezza e forza, che la resistenza femminile passa anche – e soprattutto – dai gesti più piccoli.
Shayda
Sommario
Shayda è un’opera prima che sorprende per maturità e sensibilità. Niasari riesce a fondere racconto autobiografico e riflessione universale in un film che emoziona, scuote e lascia spazio alla speranza. È un inno silenzioso alla forza delle madri, al coraggio di chi sceglie di proteggere i propri figli anche quando il mondo sembra remare contro.