Prey è l’ennesimo episodio nato dal franchise di Predator, film culto del 1987 in cui Arnold Schwarzenegger si scontrava con il temibile cacciatore alieno divenuto icona del cinema di genere. Il suo verso, il suo laser di puntamento rosso, il suo “sorriso” ruggente hanno contribuito a scrivere la storia del cinema e adesso, grazie a Dan Trachtenberg (10 Cloverfield Lane), trovano un nuovo spazio e un nuovo modo di raccontarsi, riuscendo, a sorpresa, ad approfondire il franchise.
Prey, la trama
È il 1719 in terra Comanche, una giovane donna (Amber Midthunder) della tribù desidera essere messa alla prova come cacciatrice, rifuggendo a tutti i costi da quello che dovrebbe essere il suo ruolo di donna all’interno della tribù. L’arrivo, nelle terre del suo popolo, di una bestia sconosciuta, la mette inavvertitamente in condizione di assumere finalmente quel ruolo di cacciatrice a cui tanto ambisce, ma non ha idea di qual è la bestia che sarà la sua preda…
Il capovolgimento della prospettiva
La passione di Dan Trachtenberg per il personaggio e per il franchise trasuda da ogni scelta messa in campo per Prey. Innanzitutto, dopo 35 anni, un semplice cambio di prospettiva e di titolo riesce a dare un quadro completamente nuovo delle dinamiche tra protagonisti in carne e ossa e creatura aliena: siamo di fronte a una giovane cacciatrice Comanche che si fronteggia con una preda, l’iconico alieno che è sempre stato considerato IL predatore per eccellenza. Un cambio di prospettiva, il predatore che diventa preda e che in nessun momento, nella percezione della protagonista, viene considerato imbattibile. “Se può sanguinare, può essere ucciso”.
Il riposizionamento storico di Prey
Al capovolgimento della dinamica tra preda e predatore, Trachtenberg aggiunge un riposizionamento storico del mito di Predator, ambientando il film in un contesto, storico e geografico, tribale, che consente anche di affacciarsi nella cultura dei nativi americani, grazie principalmente al contributo alla produzione di Jhane Myers, da sempre impegnata nella diffusione e nella rappresentazione storica accurata della cultura e della lingua Comanche. Certo, Prey è girato in inglese per ragioni commerciali, ma presenta un cast interamente composto da attori di origini nativo americane e si ritaglia sporadicamente lo spazio per alcuni dialoghi in lingua Comanche. Uno spaccato all’interno di una cultura quasi perduta che conferisce al film un valore ulteriore.
Il linguaggio e l’azione,
prima di tutto
Certo, non sono molte le occasioni in cui i nostri personaggi hanno la possibilità di parlare, soprattutto perché Prey è principalmente un film d’azione, che mette in scena una battuta di caccia particolarmente dura e cruda e che fa leva su un elemento nuovo, rispetto al franchise, ovvero l’intelligenza della cacciatrice che riuscirà a sopravvivere proprio grazie ad essa, più che alla forza bruta che invece sembra caratterizzare il modus operandi degli altri personaggi umani della storia. L’azione è l’unico drive della storia che sa dosare momenti di sosta a momenti concitati, emozioni forti e momenti di calma, il tutto in uno scenario naturale selvaggio e primordiale, spesso ostile e sempre realistico.
Lo svelamento della creatura
Impeccabile è anche tutto ciò che riguarda la scelta di messa in scena della creatura aliena, del predatore che diventa preda. Il linguaggio è molto simile a quello che Spielberg ha canonizzato ne Lo Squalo. Il terrore, la minaccia si fa sentire prima di fasti vedere, e Trachtenberg riesce a dosare con grande sapienza lo svelamento vero e proprio dell’alieno, sfruttando benissimo la nota tecnica di invisibilità/mimetizzazione di cui sono dotati i Predator.
Prey si basa su un assunto esilissimo e lo sfrutta a pieno, rivelandosi forse il migliori film del franchise dopo l’originale e espandendo la narrativa di Predator più che raccontarne le origini, che rimangono affascinanti e misteriose.