Nel panorama medico esistono ancora malattie poco conosciute, la cui origine rimane in gran parte un mistero. Tra queste c’è la Child Resignation Syndrome, o Sindrome della Rassegnazione Infantile, una condizione che colpisce bambini e adolescenti rifugiati insieme alle loro famiglie. Di natura psicologica, questa sindrome compromette la coscienza, inducendo un coma profondo dal quale il soggetto potrebbe non risvegliarsi. La Svezia sembra essere l’epicentro di questo fenomeno, una scoperta inquietante che ha spinto Alexandros Avranas a sentire la necessita di portare su schermo questa storia. Nasce così Quiet Life, film che Avranas scrive e dirige, presentato in Concorso nella sezione Orizzonti alla 81esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, dove ha ricevuto una standing ovation in Sala Darsena. La pellicola è un dramma, sia nel tono che nel taglio, ma permeato da una speranza che non cede mai e che cresce gradualmente fino a sbocciare in un finale profondamente commovente. A interpretare la famiglia protagonista Chulpan Khamatova, Grigory Dobrygin, Naomi Lamp e Miroslava Pashutina.
Quiet Life, la trama
Svezia, 2018. Sergei e Natalia sono una coppia che cerca asilo in Svezia, con a carico due figlie, Alina e Katja. L’uomo è stato minacciato diverse volte in Russia, con danni anche fisici, dopo aver distribuito agli studenti testi sulla democrazia e la libertà di espressione nella scuola in cui era preside. Non potendo più vivere nella loro terra, cercano riparo in una nazione che però chiude loro le porte. Ed è solo quando gli viene comunicato che entro dieci giorni dovranno lasciare la Svezia che la minore, Katja, ha un collasso, entrando in un misterioso stato di coma. Nella clinica la chiameranno sindrome della rassegnazione, un attacco alla psiche sottoposta a forte stress che porta a una perdita di conoscenza rischiosamente permanente. L’obiettivo della famiglia è salvare la bambina, e quando anche l’altra subirà la stessa sorte, si impegneranno al massimo andando contro qualsiasi decisione imposta per poter tornare a essere felici.
La famiglia, l’unica medicina di cui si ha bisogno
Basta poco per distruggere i sogni di una famiglia. Se guerre, repressioni politiche e povertà “non sono sufficienti” a spezzare intere popolazioni, ci pensano le istituzioni del Paese dove si cerca asilo. Errol Morris ha raccontato questa realtà con Separated, portandoci dentro una delle pagine più cupe della politica trumpiana, in cui, al confine tra Messico e Stati Uniti, i bambini venivano separati dalle loro famiglie. Ma non è necessario guardare così lontano per accorgersi che certe dinamiche e scelte governative persistono. Nascondendosi dietro la pretesa di tutelare la nazione e, in particolare, i bambini, le istituzioni creano barriere così rigide da generare traumi familiari profondi.
Nel caso di Quiet Life, il film denuncia direttamente il sistema svedese, che, come si vede nella pellicola, è il principale responsabile della disgregazione di un equilibrio familiare. Le bambine affette dalla sindrome della rassegnazione, pur vivendo in un ambiente sano, percepiscono le ripercussioni e il pericolo derivanti dal rigetto della richiesta d’asilo, e vengono ulteriormente traumatizzate da istituzioni che alimentano disagio e sofferenza. Oltre alla paura di dover tornare in Russia, ai genitori viene attribuita la colpa dello stato vegetativo delle figlie, arrivando perfino a minacciare di sottrarle loro se non seguono una terapia basata su sorrisi forzati e pensieri positivi, sostenendo che solo la serenità—che viene negata a Katia e Alina —può salvarle. Tuttavia, ciò che l’apparato non comprende è che è proprio l’amore di un padre e una madre che può rimarginare una ferita così profonda.
Nella geometria formale e nell’estetica fredda e asettica scelta dal regista—che riflettono il distacco emotivo della Svezia—la tenacia e la determinazione di Sergei e Natalia rappresentano la luce vibrante e il colore che infondono in Quiet Life una necessaria carica di positività, elevandosi a bellissimo contrasto. Il messaggio, nelle ultime battute, appare chiaro: anche quando viene indirettamente imposto di rimanere in silenzio, accettando regole e condizioni che non si condividono, è possibile alzare la testa e ribellarsi. Per i propri diritti, per la propria famiglia e per la propria dignità.