Viva la libertà: recensione del film di Roberto Andò

Viva la libertà

Dopo le torbide ossessioni di Viaggio Segreto e la parentesi documentaristica sul Maestro Francesco Rosi, Roberto Andò torna al cinema con il film Viva la libertà, tratto dal suo romanzo Il trono vuoto. Enrico Olivieri, leader del principale partito politico di opposizione, a ridosso delle elezioni, in seguito a numerosi contestazioni fugge a Parigi da una vecchia fiamma conosciuta durante la sua gioventù nel mondo del cinema. L’assistente e la moglie decidono allora di ingaggiare come sostituto il fratello gemello di Olivieri, un eccentrico filoso dimesso da poco da una clinica psichiatrica, il quale ben presto, grazie alle sue idee anticonformiste, intraprenderà una sfavillante carriera politica.

 

In un clima di forte contestazione come quello attuale, il film di Andò ha il merito di trattare con spensieratezza e intelligenza la tematica dell’insicurezza delle istituzioni, senza rinunciare ad una cinica e profonda riflessione sui ruoli del potere e del desidero individuale. Straordinaria e poliedrica prova d’attore per Toni Servillo, il quale riesce perfettamente nel caratterizzare la duplice psicologia dei due fratelli, così diversi tra loro, regalandoci anche una serie di gustose gag comiche che servono però a nascondere una provocazione di fondo molto pesante, incarnata dal fratello filosofo. In un cast di tutto rispetto troviamo anche un Valerio Mastandrea leggermente impacciato e una dolcissima Valeria Bruni Tedeschi, i quali vengono ovviamente eclissati dalla mastodontica performance di Servillo.

Pregevole e ricercatissima la fotografia desaturata di Maurizio Calvesi, la quale scava nel profondo della psicologia doppelganger del protagonista, creando delle fortissime distinzioni cromatiche che differenziano le esistenze dei due gemelli. Il lavoro più grande è comunque quello di sceneggiatura compiuto da Andò, il quale non a caso si focalizza sulle coalizioni politiche di una fittizia Sinistra italiana che però risulta paurosamente simile a quella attuale, rigirando più volte il coltello nella piaga riguardo la mancanza di unità e di forza da parte dei suoi rappresentati. Pare quasi che il regista voglia dirci che solo una mente folle, quella del filosofo, è in grado di dare una scossa e di procedere su di una strada libera da preconcetti e dagli interessi.

Andò compie inoltre un pregevole lavoro metacinematografico, in quanto paragona la politica ad un film dove in entrambi i casi la realtà e la bugia finiscono per coesistere e confondersi tra loro. Se un politico decide di diventare regista, può allora un filosofo pazzo diventare leader di un paese?

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