Signs of Love: la recensione del film di Clarence Fuller

Con il suo film d'esordio il regista offre uno spaccato di vita che, con grande sincerità, racconta del potere salvifico dell'amore.

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Con il suo debutto alla regia di un lungometraggio, dal titolo Signs of Love, il regista Clarence Fuller racconta una storia d’amore dove il sentimento si oppone al dolore e al disagio esistenziali che la vita può provocare. Il film, presentato in Concorso ad Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma, ha conquistato tutti con la sua ruvida dolcezza, aggiudicandosi anche il Premio Corbucci. Assegnato per la prima volta nel corso di questa edizione, tale riconoscimento, così intitolato in onore a Sergio Corbucci, ha l’obiettivo di valorizzare le opere vincitrici, favorendo la loro uscita in sala.

 

Grazie a tale riconoscimento, Signs of Love potrà dunque ora trovare il proprio posto nei cinema italiani, offrendo al pubblico la storia di Frankie (Hopper Penn), un ragazzo da sempre afflitto da una complicata situazione famigliare. Cresciuto in un quartiere degradato, egli non ha avuto altre possibilità se non quella di diventare uno spacciatore, attività con cui può prendersi cura della sorella alcolizzata Patty (Dylan Penn) e, soprattutto, del nipote quindicenne. La sua vita non sembra avere in serbo sorprese per lui, almeno fino a quando non incontra Jane (Zoë Bleu Sidel). In lei Frankie vede la possibilità di un futuro migliore, ma solo se riuscirà a fuggire dal suo presente.

Questione di famiglia

Il film di Fuller ha attirato attenzioni su di sé per via della presenza di Hopper e Dylan Penn, fratello e sorella nella realtà, nonché figli di Sean Penn e Robin Wright. Entrambi vantano già diverse interpretazioni, ad esempio in Il tuo ultimo sguardo e Una vita in fuga, entrambi diretti dal padre. Qui si trovano però entrambi a confrontarsi con dei personaggi particolarmente problematici e complessi, caratterizzati da profonde ferite emotive che stabiliscono il modo in cui entrambi si relazionano con il mondo e le persone circostanti. I due attori riescono però a risultare credibili e appassionanti nelle loro rispettive interpretazioni. La vera sorpresa del film, però, è Zoë Bleu Sidel.

Figlia dell’attrice Rosanna Arquette, la giovane interprete è qui al suo primo ruolo di rilievo e dimostra già una presenza scenica ammaliante. La sua Jane, una ragazza non udente, è il vero e proprio cuore del film, che comunica attraverso quella lingua dei segni che dà il titolo al film. È lei il segno che l’amore può esistere per Frankie, se solo egli saprà come cogliere la sua occasione. Signs of Love, dunque, svela notevoli legami famigliari fuori e dentro il racconto, i quali sono altrettanto centrali per ciò che al regista preme raccontare. I suoi protagonisti sono infatti profondamente definiti dalla loro famiglia di provenienza.

Lo sa bene Frankie, che tra il padre tossicodipendente e la sorella alcolizzata non è riuscito a ritagliarsi fuori da tale contesto. La famiglia è però raccontata non solo per i suoi aspetti più crudeli, ma anche con uno spiraglio di ottimismo che permette di ritrovare fede in tali legami. A ciò torna utile il nipote del protagonista, suo primo unico motivo per non lasciarsi cadere nell’oblio. Fuller si concentra dunque sul raccontare tutte le sfumature di cui una famiglia può comporsi e i modi in cui tale presenza possa essere più o meno salvifica nella vita di tutti noi. In fin dei conti, l’elemento che non può mancare è, naturalmente, l’amore vero e reciproco.

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Dylan Penn in una scena di Signs of Love.

I segni dell’amore

Il film che Fuller realizza si caratterizza dunque per le sue emozioni forti, che rendono il tutto profondamente più coinvolgente. Per quanto i personaggi possano essere sgradevoli o lontani dal proprio vissuto, i loro tentativi di opporsi ad un fato avverso possono suscitare quell’identificazione necessaria a rendere un’opera memorabile. All’interno di questa cornice emotiva, colpisce però anche il contesto che il regista si preoccupa di costruire. Come da lui affermato, la sceneggiatura di Signs of Love risale al 2011, ma solo dopo essersi imbattuto nella città di Philadelphia egli ha trovato ciò che mancava al suo racconto.

Fuller va infatti a ricercare in quella città dinamiche che possano rendere il racconto più struggente senza però allontanarsi dal realismo desiderato. Signs of Love è dunque un’opera che si potrebbe definire come “ruvida”, che non risparmia situazioni particolarmente dolorose e conferisce al racconto quella sincerità che si rivela essere il suo pregio migliore. Perfettamente inserito nel contesto del miglior cinema indipendente americano, il film permette dunque di entrare a far parte di uno spaccato di vita, dove non si offrono facili soluzioni ma solo conseguenze inevitabili per le proprie azioni. Una gradita sorpresa, dunque, da non lasciarsi sfuggire al suo passaggio in sala.

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Gianmaria Cataldo
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Gianmaria Cataldo
Laureato in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è un giornalista pubblicista iscritto all'albo dal 2018. Da quello stesso anno è critico cinematografico per Cinefilos.it, frequentando i principali festival cinematografici nazionali e internazionali. Parallelamente al lavoro per il giornale, scrive saggi critici e approfondimenti sul cinema.
signs-of-love-recensione-clarence-fullerCon Signs of Love, Clarence Fuller scende per le strade di Philadelphia, raccontando con un ricercato realismo situazioni e dinamiche disperate, dove l'amore può essere la sola speranza di salvezza. Il film, ben interpretato e diretto, è un buon esempio di cinema indipendente americano, che non offre soluzioni ma forti emozioni e profonde riflessioni esistenziali.