Con Storia d’Inverno (Winter’s Tale), lo sceneggiatore premio Oscar di A Beautiful Mind Akiva Goldsman firma il suo esordio alla regia, adattando per il grande schermo l’omonimo romanzo di Mark Helprin. Nel cast, un ensemble di grande richiamo – Colin Farrell, Jessica Brown Findlay, Russell Crowe, Jennifer Connelly, William Hurt, Eva Marie Saint – per una fiaba romantica ambientata tra la New York del 1916 e quella contemporanea, dove il tempo e il miracolo diventano i veri protagonisti.
Goldsman, noto per la sua capacità di costruire sceneggiature dense di pathos e moralità, tenta qui un racconto più ampio, sospeso tra realismo magico e melodramma. Ma se l’ambizione è evidente, l’esito risulta discontinuo: Storia d’Inverno (Winter’s Tale) è un film visivamente sontuoso ma narrativamente fragile, che alterna momenti di poesia a cadute di tono eccessivamente sentimentali.
Una favola romantica tra bene e male

La storia inizia nella New York del 1916, dove il ladro gentiluomo Peter Lake (Colin Farrell) irrompe in una villa per una rapina e finisce per innamorarsi di Beverly Penn (Jessica Brown Findlay), figlia del ricco proprietario dell’abitazione. Tra i due nasce un amore impossibile, ostacolato dalla malattia incurabile di lei e dalla vendetta di Pearly Soames (Russell Crowe), gangster spietato che rappresenta l’incarnazione del male. Da qui, la trama si muove su due piani temporali: quello del passato, dove l’amore e la morte si intrecciano, e quello del presente, dove Peter – inspiegabilmente sopravvissuto – cerca di compiere un miracolo che trascenda il tempo stesso.
L’intreccio, in teoria, dovrebbe unire le due linee temporali in una circolarità mistica, ma è proprio in questa connessione che il film mostra la sua fragilità. Goldsman adatta un romanzo considerato ineguagliabile per ampiezza e complessità, ma nel tradurlo in immagini semplifica le dinamiche e perde l’equilibrio tra il realismo della cronaca e il simbolismo della fiaba. Il legame tra passato e presente – che dovrebbe essere l’asse portante della narrazione – resta debole, accennato più che compiuto. La promessa di una storia universale sul destino e sulla redenzione si dissolve in un mosaico visivo suggestivo ma frammentato.
Ciò nonostante, l’autore riesce a trasmettere un sincero afflato spirituale, una tensione costante verso l’idea di miracolo che attraversa tutto il film. Il tempo e l’amore diventano due forze metafisiche, invisibili ma in grado di piegare la realtà. Il problema è che questa ambizione metafisica non trova mai un linguaggio cinematografico coerente: la narrazione resta sospesa tra un registro fiabesco e uno melodrammatico, senza scegliere davvero.
Regia elegante, sceneggiatura fragile

Da regista esordiente, Akiva Goldsman dimostra una solida conoscenza della messa in scena, ma anche una certa insicurezza nella gestione dei toni. Le sequenze ambientate nella New York dei primi del Novecento sono tra le più riuscite: grazie a una fotografia calda e suggestiva e a una scenografia accurata, restituiscono il fascino di un’epoca perduta. L’uso degli effetti digitali, in particolare nelle scene notturne sul Ponte di Brooklyn o nelle vedute aeree della città, è di grande impatto visivo, anche se non sempre perfettamente integrato. Meno riuscite, invece, le scene ambientate nel presente, dove l’uso eccessivo di luce artificiale e la fotografia talvolta piatta smorzano l’incanto costruito nella prima parte.
Il vero limite del film, però, è nella scrittura. Pur firmando personalmente la sceneggiatura, Goldsman non riesce a dare profondità psicologica ai suoi personaggi. Lo scontro tra Peter e Pearly – potenzialmente carico di significato simbolico – si riduce a una contrapposizione semplicistica tra bene e male, priva di reale tensione morale. La mancanza di motivazioni umane dietro le azioni del villain, così come la poca costruzione dell’amore tra i protagonisti, rende difficile per lo spettatore investire emotivamente nella vicenda.
L’idea di fondo — che ogni persona sia destinata a un miracolo — è affascinante ma resta un’astrazione. Nonostante l’interpretazione intensa di Colin Farrell, che dona a Peter Lake un’umanità dolente e disarmata, e quella altrettanto efficace di Jessica Brown Findlay, il film non riesce mai a far vibrare davvero il cuore dello spettatore. La loro storia d’amore, pur centrale, manca di sviluppo e di respiro epico, venendo rapidamente sopraffatta dagli elementi soprannaturali e dalle forzature narrative.
Un cast di talento per un film irrisolto

Il comparto attoriale resta uno dei punti forti del film. Russell Crowe regala un antagonista magnetico, trattenuto e inquietante, ma purtroppo sacrificato da una sceneggiatura che non gli concede spazio. Jennifer Connelly e William Hurt impreziosiscono la seconda parte del film, aggiungendo sfumature e credibilità a un racconto che rischia spesso di perdersi nel proprio romanticismo. Il cameo di Eva Marie Saint, infine, aggiunge un tocco di eleganza e nostalgia, chiudendo idealmente il cerchio tra il cinema classico e quello contemporaneo.
Storia d’Inverno rimane dunque un’opera di luci e ombre: un film di grande ambizione, visivamente curato e sorretto da un cast eccezionale, ma penalizzato da una scrittura che non riesce a tenere insieme le sue molte anime. Goldsman costruisce una New York sospesa tra realtà e sogno, ma la magia che dovrebbe avvolgere i personaggi resta un’immagine lontana, più evocata che vissuta.
Storia d'Inverno
Sommario
Un debutto elegante ma irrisolto per Akiva Goldsman: Storia d’Inverno è una fiaba romantica che sogna in grande ma inciampa nella sua stessa ambizione.
