Transformers – L’ultimo cavaliere è la quinta avventura targata Hasbro che Michael Bay decide di raccontarci, trasportando lo spettatore per un numero cospicuo di minuti in un mondo che rappresenta alla perfezione la sua idea di fare cinema.

 

Il film raccoglie l’eredità dei suoi predecessori, film artisticamente con esiti alterni ma con grandissimo seguito di pubblico e con risultati sempre prestigiosi al box office. Perché, per quanto possa essere triste e artisticamente poco nobile, alla fine è lo spettatore che decide il successo di una pellicola, e in questo Michael Bay è il paladino del suo pubblico.

Cade Yaeger e Optimus Prime, eroi

Transformers – L'ultimo cavaliereDopo gli avvenimenti de L’Era dell’Estinzione, Optimus Prime ha lasciato la Terra, in cerca del suo creatore, e Cade Yaeger è un ricercato, unico umano schierato dalla parte dei Transformers che, dal canto loro, con la partenza di Optimus e la latitanza di Megatron, senza dei capi-fazione da seguire, sono allo sbaraglio, messi al bando e cacciati dal genere umano. In un momento di massima crisi, l’antico ordine dei Witwiccan e una leggenda dal passato riemergono per dare ancora una speranza all’umanità. Risalendo a Re Artù e alla magia di Merlino, Cade dovrà farsi cavaliere per salvare ancora una volta la Terra dalla minaccia di Megatron.

Nel quarto capitolo, Bay ci aveva introdotto un nuovo protagonista, Cade (Mark Wahlberg), molto diverso dal Sam di Shia LaBeouf: un uomo, un padre, una persona buona e coraggiosa, un elementare esempio di essere umano retto; insomma un degno corrispettivo in carne e ossa di quell’Optimus Prime che è sempre stato rappresentante di queste qualità. In questo film il regista riprende il personaggio e ne fa un eroe, per la prima volta gli affianca delle figure femminili, una donna e una bambina, determinanti (una di più, l’altra di meno) per lo svolgimento della storia, e si adegua pigramente alle esigenze del pubblico ultra-moderno. A questi personaggi si aggiunge il vecchio saggio, un po’ folle, interpretato da Anthony Hopkins, e la solita marmaglia di soldati (tra cui riconosciamo Josh Duhamel e Tyrese Gibson) e di robottoni giganti (con Bumblebee in prima linea).

Transformers – L’ultimo cavaliere è il trionfo dell’idea di cinema di Bay

Transformers – L'ultimo cavaliereIl lavoro che svolge Bay con Transformers – L’ultimo cavaliere è la realizzazione di un’idea di cinema da parte di colui che i più intellettuali faticano a chiamare autore, ma che rappresenta a tutti gli effetti la figura di artista con una cifra stilistica riconoscibile. Il film è il trionfo di quell’idea, che si fa spettacolo pirotecnico ogni volta che ce n’è occasione, con strabordante azione, massiccia computer grafica, sentimenti eroistici esasperati, che sottendono un patriottismo cieco e che si sposano alla perfezione con l’impostazione spettacolare che Michael, sempre bambino divertito e giocherellone, propina al suo spettatore tipo.

In Transformers – L’ultimo cavaliere questa idea di cinema viene esasperata con un meticoloso lavoro di reiterazione che prende in prestito un po’ del fascino della leggenda arturiara, attingendo quasi legittimazione culturale dall’ambientazione inglese della seconda parte della storia, e costruendo una serie di scene visivamente lussuriose.

L’eco e il richiamo del passato

Lo spirito di questo Transformers – L’ultimo cavaliere è pervaso anche da un ritorno al passato. Dalle inflessioni della colonna sonora, alle relazioni tra robot e personaggi in carne e ossa, fino alla reiterazione della frase “Niente sacrificio, niente vittoria”, motto dei Witwicky, protagonisti della prima trilogia (che per allitterazione di W ricorda inevitabilmente l’Ordine Witwiccan), il sentimento di eredità che in dieci anni ha accompagnato il regista, da quella scommessa fatta con la Hasbro e con il pubblico, fino a questo glorioso nuovo capitolo, trova il suo giusto spazio, pronto a essere raccolto dallo spettatore fedele al franchise.

Due mondi, quattro o più protagonisti, cinque fazioni, due continenti: Michael Bay si muove sempre più verso l’eccesso, verso il “troppo”, in un’ottica del racconto che abbandona progressivamente la narrazione e si fa sempre più spettacolo puro per gli occhi.

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