Un figlio, la recensione del film tunisino premiato a Venezia e ai César

Un dramma dai molti risvolti dominato da Sami Bouajila, pluripremiato come miglior interprete maschile.

Un figlio recensione

Pochi, pochissimi film possono vantare un tale plebiscito di commenti unanimi come Un figlio. L’opera prima di Mehdi M. Barsaoui, presentata a Venezia 76, arriva finalmente in sala – dal 21 aprile, distribuito da I Wonder Pictures – con il suo carico di dolore, dramma e domande. Quelle che ogni spettatore sarà costretto inevitabilmente a porsi, istintivamente immedesimandosi negli scrupoli o i sensi di colpa dei due protagonisti assoluti, Najla Ben Abdallah e Sami Bouajila (vincitore come Migliore Attore della sezione Orizzonti della Mostra del 2019, ai César 2021 e ai Lumiere Awards 2021).

 

Una scelta, di campo, di cuore o di testa, niente affatto facile da fare. Più ancora che per la bravura degli interpreti, grazie all’equilibrio che il neo regista riesce a mantenere durante tutto lo svolgimento, senza eccedere, ma lasciando parlare i fatti e la loro semplice drammaticità. E che riesce a svincolare il risultato finale dai canoni del melodramma, limitando al minimo certa manipolazione emotiva frequente nel genere.

Cosa succede in Un figlio

Tutto si svolge in Tunisia, nell’estate del 2011. Un momento caldo, per le proteste sociali in corso nel paese e la Guerra Civile nella vicina Libia di Gheddafi. Un momento spensierato per Fares, Meriem e per il loro figlio di dieci anni, Aziz, in vacanza nel sud del paese prima di tornare alla loro vita quotidiana, almeno fino a che il piccolo non viene colpito per errore durante un agguato.

La corsa in ospedale è solo l’inizio di una odissea che andrà svelando gradualmente i suoi mostri. Le cure urgenti stabilizzano infatti il bambino, ferito gravemente e bisognoso di un trapianto, ma le difficoltà di un Paese ancora troppo “indietro” sul tema e troppo condizionato dalla religione metteranno i due genitori di fronte a una serie di dilemmi, morali e non, ai quali non sarebbe facile dare risposta per nessuno. Tanto più dopo la scoperta di un segreto a lungo nascosto.

La scoperta del dramma scava dentro tutti noi

La rivelazione spacca in due lo sviluppo successivo e crea due diverse narrative, indipendenti ma indissolubilmente legate. Ma soprattutto scatena un effetto domino al quale nessuno sembra in grado di sfuggire, costretto a confrontarsi con i propri principi. Ovviamente, da solo. E da sola. La coppia protagonista – moderna, realizzata e innamorata, felice insomma – improvvisamente scompare, ma nessuno se ne accorge, in balia dello tsunami emozionale e delle sue conseguenze.

Il trauma dei due è chiaro, ma a prescindere da quale sarà l’esito finale e quale soluzione si rivelerà la migliore anche loro da soggetti si trasformano in occasioni. E attenzione a limitarsi a una superficiale accusa dell’atteggiamento giustificatorio – solo apparentemente – del regista nei loro confronti, soprattutto considerato quanto ci si sposti su un doppio piano ben diverso.

Da una parte quello dell’allegoria, politica e culturale, con la rappresentazione di quanto un soggetto possa trovarsi in balia delle scelte etiche di una controparte in grado di disporre dei mezzi necessari alla sopravvivenza altrui, e delle opzioni di fronte alle quali la disperazione possa porre un essere umano, o un popolo. Dall’altro quello dell’inutilità dei canoni, dei ruoli e delle sovrastrutture sociali – e religiose – in certi frangenti, visto quanto la Vita e l’Amore sappiamo mettere in evidenza i limiti della fede e della legge o i privilegi di classe, chiarendo a tutti – quelli che vorranno o sapranno ascoltare – come sia impensabile potersi ergere a giudici delle vite degli altri senza avere chiaro come potremmo comportarci nei loro panni.

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