Arriva al cinema il 17 novembre Agnus Dei, il film di Anne Fontaine che ci porta nella Polonia del 1945.
Nel pieno di un difficile clima di ricostruzione postbellica all’interno di un paese reso politicamente e socialmente schiavo dalle stesse forze di liberazione, la giovane studentessa di medicina Mathilde Beaulieu di stanza presso la Croce Rossa francese viene segretamente interpellata da una suora polacca per prestare assistenza alle religiose di un convento, precedentemente violentante da soldati sovietici e prossime al parto. Vincendo la ritrosia della madre badessa e stringendo un profondo sodalizio con suor Maria, unica capace di comprenderla veramente, Mathilde si trova dinnanzi al difficile compito di conciliare il proprio altruismo con il cocente senso di colpa religioso che affligge le vittime della piccola comunità monacale.
Agnus Dei recensione del film di Anne Fontaine
Scienza e fede, redenzione e dannazione si danno battaglia fra le aspre nebbie di un paese perennemente sotto assedio che fa da sfondo a questo toccante dramma umano la cui atmosfera contemplativa e il minimale impianto estetico non possono che rimandare al glorioso cinema del primissimo Robert Bresson, non fosse che per la sua straordinaria capacità di narrare la complessità dello spirito e della ragione mediante un lucido lavoro filmico in sottrazione.
Agnus Dei
– locuzione latina che rimanda alla vittima sacrificale cristiana
ben richiamata ne Les innocentes del
tiolo originale – ci parla di un paradossale dilemma di maternità
“proibita” vissuto dalle dirette interessate attraverso differenti
punti di vista (senso di colpa, mistica accettazione, disinteresse)
il tutto dipinto come un tragico “errore” frutto della cattiveria
dell’uomo più che della volontà di un Dio che non sembra poter
albergare realmente fra le fredde mura di un convento-bunker dove
la giovane Mathilde (una misurata Lou de Laage) si
trova a prestare un inusuale servizio.
Come in una
pellicola di Manoel De Oliveira le barriere
linguistiche vengono abbattute quasi per magia grazie a personaggi
archetipici che fanno da ponte fra mondi e culture – la
paternalistica Francia vincitrice, la brutale Russia liberatrice e
la sottomessa ma fiera Polonia liberata – che qui trovano in suor
Maria (nominativo ossimorico in quanto una delle poche a non
concepire) la propria forma ideale. Servendosi di una sceneggiatura
asciutta e tagliente firmata dal critico Pascal
Bonitzer – che riprende a sua volta le secche memorie
diaristiche del medico Madeleine Pauliac – e facendo leva sulla
glaciale fotografia di Caroline Champetier,
finalmente Anne Fontaine decide di allontanarsi
dall’estetica glitterata di Coco avant
Chanel (2009) condensando in modo
straordinario le suggestioni umane di Two
Mothers (2013) con la derivazione
romanzesca di Gemma Bovery (2014), dando
vita a un sublime racconto pastorale nel quale nemmeno il finale
forzatamente retorico e posticcio può intaccare un così raffinato
esempio di come, ancora oggi, l’immagine possa sprigionare il peso
di una Storia i cui protagonisti non sono altro che i drammi degli
“Innocenti” del quotidiano.