L’Amore che Resta: recensione del film di Gus Van Sant

L'amore che resta

Nel suo ultimo lavoro L’Amore che Resta, Gus Van Sant torna a soffermarsi sui giovani e sulle loro problematiche. La trama non è nuova al grande schermo, incentrata sulla coesistenza di amore e morte. Ma il regista ha uno sguardo originale ed è coadiuvato da un buon soggetto e da un’altrettanto valida sceneggiatura, firmata da Jason Lew e inizialmente destinata al teatro.

 

In L’Amore che Resta i protagonisti sono due adolescenti le cui vite sono precocemente segnate dalla morte, per motivi diversi: lui ha perso i genitori in un incidente, lei è gravemente malata. È sulla base di questa similitudine che avviene il loro incontro. Ciascuno di loro si confronta con la morte ogni giorno, a modo suo, cercando di trovare un sistema per affrontarla e continuare a vivere.

Il protagonista maschile – Enoch/Henry Hopper, figlio del celebre Dennis cui il film è dedicato – è un giovane isolato, senza amici, che “si allena” alla morte imbucandosi ai funerali altrui, sperando così forse di abituarvisi, o di imparare dall’osservazione del dolore degli altri come affrontare il proprio. È alto, magro, veste sempre di nero, vive in una casa scura, con una zia che veste anche lei di nero. Forse, vorrebbe essere morto lui stesso. L’unica relazione che Enoch coltiva è quella con il fantasma di un kamikaze giapponese della seconda guerra mondiale, che lo segue ovunque.

L’Amore che Resta, il film

L'amore che resta

La protagonista femminile, Annabel (Mia Wasikowska), all’opposto di Enoch, ha una grande gioia di vivere, veste con abiti colorati e dalle fantasie particolari, non si vuole deprimere, non vuole lasciarsi abbattere, nonostante la morte le sia già vicina. I due s’incontrano e insieme, aiutandosi l’un l’altro, cercano e in qualche modo riescono ad affrontare qualcosa di difficile ed estremo, come può essere la morte per due adolescenti. Per Enoch la storia d’amore con Annabel sarà occasione di crescita: capirà che non ci si abitua mai, che non esistono antidoti, scorciatoie o soluzioni di comodo alla morte, che non si può non soffrirne, si può solo accettarla come parte della vita. E poiché non siamo comunque al riparo dalla sofferenza, anziché isolarsi, è comunque meglio vivere con gli altri la propria esperienza.

La forza del film però, al contrario di quanto si potrebbe pensare, è quella di non essere didascalico o patetico, di non puntare sul melodramma. Gus Van Sant tratta il tema in modo intelligente, riuscendo a tenersi quasi sempre lontano dalla retorica, anche grazie a un uso consistente dell’ironia, come quella che esercita con tutta evidenza in un paio di sequenze (molto divertente quella delle “death scenes”), ironizzando sull’approccio melodrammatico a questo tipo di storie. I dialoghi sono asciutti ed essenziali e al posto di frasi retoriche si preferiscono allusioni e silenzi.

L’interpretazione dei due protagonisti in L’Amore che Resta è misurata ed efficace. Hopper ci regala a volte uno sguardo assente, perso nel vuoto del suo isolamento, ma più spesso rende con spontaneità, assieme alla Wasikowska, quella voglia di normalità che li caratterizza entrambi. Wasikowska, col suo volto angelico e sbarazzino al tempo stesso, incarna in modo convincente un’apparente ingenuità, estrema difesa nei confronti di ciò che l’attende.

Gus Van Sant non cerca ciò che potrebbe facilmente colpire lo spettatore, per tenerlo avvinto alla storia, come l’esibizione della sofferenza o della malattia, ma punta proprio sulla ricerca della normalità. Ne risulta un racconto che si muove sul filo della leggerezza, su un argomento “pesante”. Il regista riesce così a far rimettere in tasca fazzoletti intonsi a chi si era preparato “al peggio”.

Particolarmente efficaci in questo senso alcuni espedienti di sceneggiatura, come la figura del fantasma Hiroshi: una sorta di saggio venuto dall’al di là, che accompagna Enoch e lo consiglia, ma allo stesso tempo, suo amico, complice e sodale. Nel film c’è, sì, una storia d’amore, c’è una riflessione profonda sul tema della morte, il tutto però filtrato da un’ottica disincantata ed ironica. Il regista si muove abilmente tra questi due poli, come tra una matrice americana e un “mood britannico”, che può ricordare pellicole come Another Year di Mike Leigh. Lo stesso fa con la scelta della colonna sonora, che si apre coi Beatles e si chiude con la voce di Nico. La pellicola è prodotta da Ron Howard e da sua figlia Bryce.

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