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Box Office ITA: domina il cinema italiano

Terzetto invariato sul podio del box office italiano, rispettivamente Maschi contro femmine, Benvenuti al Sud e Cattivissimo Me. Esordi molto modesti per le new entry, anche dalle novità presentate al Festival del Cinema di Roma.

Stime (molto) promettenti potevano ipotizzare qualche cambiamento nel terzetto dei film più visti in questo weekend. Invece Maschi contro femmine mantiene la prima posizione raccogliendo 2,5 milioni per un totale di 9,1 milioni: evidentemente la commedia corale di Fausto Brizzi sta godendo di un buon passaparola.

Nuovamente al secondo posto Benvenuti al Sud, arrivato a ben 26,6 milioni complessivi con 1,3 milioni ottenuti negli ultimi tre giorni: la pellicola italiana è seconda (ovviamente dopo l’irraggiungibile Avatar) nella classifica degli incassi italiani del 2010.

Cattivissimo Me conserva la terza posizione con altri 934.000 euro, arrivando a quota 11,2 milioni. Segue Winx Club in 3DMagica avventura, che ottiene altri 682.000 euro giugendo a 2,2 milioni totali.

La prima new entry a piazzarsi nella top10 è Last Night, che troviamo al quinto posto con 569.000 euro. Film d’apertura all’ultimo Festival del Cinema di Roma, la pellicola si rivolge a un pubblico di nicchia.

Salt scende in sesta posizione sfiorando i 2 milioni complessivi con altri 502.000 euro.

Seguono tre novità del fine settimana: Due cuori e una provetta, l’ennesima commedia con Jennifer Aniston, raccoglie 499.000 euro, mentre L’immortale esordisce con 427.000 euro.

Delude Una vita tranquilla, soltanto nono con 425.000 euro: il film presentato a Roma, e che ha fruttato il premio di Miglior Attore al protagonista Toni Servillo, ha decisamente aperto sotto le aspettative.

Chiude la top10 Il Regno di Ga’ Hoole – La leggenda dei guardiani, arrivato a 1,3 milioni con altri 351.000 euro.

Megamind in vetta al botteghino USA

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Megamind

Settimana del 5/11/2010 – La sfida tra Dreamworks e Pixar è nota a tutti. Due colossi che si contendono lo scettro dell’animazione digitale, sfornando, piu’o meno con costanza piccoli capolavori che sono importanti anche per la storia del cinema. L’ultimo regalo che ci ha lasciato la Pixar è stato Toy story 3, in cui ancora una volta, il discorso si è spostato a livelli piú alti della semplice storia per bambini con i pupazzi parlanti.

 

Apollo 18: conferme dalla Weinstein Company

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Confermato: la Weinstein Company farà uscire a marzo 2011 Apollo 18, thriller fantascientifico “paranormale” girato in stile documentaristico e dedicato alla misteriosa missione spaziale, ufficialmente mai avvenuta. Ecco nuovi dettagli…

The Adventures of Tintin: Secret of the Unicorn nuove foto!

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Sono uscite le scansioni delle altre immagini inedite delle Avventure di Tintin pubblicate su Empire: possiamo vedere le atmosfere noir del film di Steven Spielberg e Peter Jackson…

Iniziate le riprese di The Twilight Saga: Breaking Dawn

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Iniziano ufficialmente oggi le riprese di The Twilight Saga: Breaking Dawn, che si svolgeranno tra la Louisiana, Vancouver e il Brasile. E si comincia proprio da Rio de Janeiro, da dove arrivano queste primissime immagini dal set.

Si tratta di una scena che vedremo verso l’inizio della Parte Prima: Edward (Robert Pattinson) e Bella (Kristen Stewart) arrivano in Brasile per la luna di miele e salgono a bordo di un motoscafo per raggiungere Isola Esme.

Le riprese continueranno fino al 22 aprile 2011; sul set con gli attori c’è anche Stephenie Meyer, l’autrice dei romanzi, che per questi ultimi due film si è riservata il ruolo di co-produttrice.

Breaking Dawn – Parte Prima uscirà il 18 novembre 2011; Breaking Dawn – Parte Seconda uscirà il 16 novembre 2012.
Tutte le altre foto potete vederle qui.

Iniziate le riprese di The Twilight Saga: Breaking Dawn

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Iniziano ufficialmente oggi le riprese di The Twilight Saga: Breaking Dawn, che si svolgeranno tra la Louisiana, Vancouver e il Brasile. E si comincia proprio da Rio de Janeiro, da dove arrivano queste primissime immagini dal set.

 

Ghostbusters 3: tutto quello che sappiamo sul sequel

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Ghostbusters 3: tutto quello che sappiamo sul sequel

Dopo oltre vent’anni d’attesa stanno per tornare i Ghostbusters – Le speranze di milioni di fans appartenenti alle generazioni degli anni ’70-’80 sembrano finalmente concretizzarsi: dopo oltre vent’anni dal sequel sta per arrivare sul grande schermo Ghostbusters 3.

Le notizie in merito sono ancora scarne e il progetto più volte è stato sul punto di saltare, partendo proprio dalla messa in discussione del regista Ivan Reitman, il quale ha già diretto i primi due della saga e altri film noti al grande pubblico come: Animal House (suo grande esordio), “I due gemelli”, “Un poliziotto alle elementari”, “Sei giorni sette notti”, “Beethoven”, “Junior”, “Space Jam”, ecc. Poi confermato.

La sceneggiatura è stata affidata ancora alla coppia Gene Stupnitsky e Lee Eisenberg, i quali però hanno subito aspre critiche da colui che ha dato il volto al Dr. Peter Venkman (parapsicologo strambo e scettico dei primi due film): Bill Murray. Quest’ultimo ha infatti affermato che i due sceneggiatori hanno scritto un film orribile come “Year one” – lungometraggio super pubblicizzato dello scorso anno rivelatosi poi un flop – e dunque si è detto molto scettico sulla riuscita di un terzo film sui Ghostbusters.

Ghostbusters 3, una reale possibilità?

Ospite in una puntata del “Late Show”, famoso programma americano irriverente condotto da David Letterman, aveva già confessato che Ghostbusters 3 era il suo incubo e che avrebbe partecipato al film solo se Peter sarebbe morto subito nei primi minuti. Chissà, magari questa cruda ironia è anche un’anticipazione del film, e, stando ad altre indiscrezioni, forse davvero nel III episodio il personaggio di Peter sarà un fantasma.

Al di là dei dubbi e delle feroci critiche di Bill Murray – il cui ruolo resta comunque centrale dovendo interpretare uno degli acchiappafantasmi – a ridare speranze ai fan di questi ultimi ci hanno pensato gli altri due componenti del gruppo: Dan Aykroyd (che interpreta il Dr. Raymond Stantz, o più semplicemente Ray) e Harold Ramis (che interpreta il Dr. Egon Spengler, il cervellone della squadra). I due, che dall’ultimo Ghostbusters del 1989 hanno interpretato e diretto diversi film (separatamente), hanno infatti collaborato alla scrittura della sceneggiatura insieme a Stupnitsky e Eisenberg, e in alcune interviste sul progetto ne hanno parlato entusiasti.

Sempre secondo indiscrezioni, ci sarà anche il quarto Ghostbusters, Ernie Hudson, che interpreta Winston Zeddemore; ci saranno anche le due donne del film, Sigourney Weaver nei panni di Dana Barrett e Annie Potts nei panni della segretaria zitella Janine Melnitz. Gradito ritorno sulle scene quello di Rick Moranis, reduce da un ritiro durato ben tredici anni. Nel film originale, Moranis interpretava il vicino di casa di Sigourney Weaver, Louis Tilly, che tentava buffamente di rimorchiare. Ma in seguito alla morte della moglie, l’attore ha abbandonato quasi del tutto il cinema per concentrarsi sui suoi figli, rifiutando anche di tornare a doppiare il videogioco dei Ghostbusters uscito nel 2008.

Vecchi acchiappafantasmi

I vecchi acchiappafantasmi saranno affiancati da giovani leve; una mossa atta a rendere il film non solo un gradito amarcord per ventenni e trentenni, ma accattivante anche per gli under20. Nella trama figura infatti anche Oscar, che ricorderete nel secondo Ghostbusters essere il figlio di Dana; voci di corridoio danno scritturato per questo ruolo l’attore Michael Cera, brillante attore ventiduenne fattosi notare in “Juno”. Sempre secondi indiscrezioni, gli altri giovani dovrebbero essere le belle Eliza Dushku e Visualizza.

Ma veniamo alla trama, cercando di ricostruirla sempre con le poche indiscrezioni fin qui trapelate. Città scenario delle avventure apocalittiche dei Ghostbusters sarà ancora New York, “grande mela” che nel primo episodio ha dovuto subire le angherie del pur morbido ma cattivo omino mascotte dei Marshmallow preferiti da Ray, mentre nel secondo di Vigo il distruggitore sovrano terribile dei Carpazi in epoca medioevale.

Sotto un capannone della città si è generata una porta spazio-temporale che dà accesso ad un’infernale dimensione parallela. I Ghostbusters saranno dunque chiamati ad accedervi e salvare ancora una volta il Mondo. Ma essendo ormai invecchiati, lo faranno coadiuvati da nuove leve, a cui dovranno trasmettere i trucchi del mestieri. Peter dovrebbe essere morto ma darà il suo contributo (ironia della sorte) da fantasma; mentre Rey, darà soprattutto un contributo intellettuale avendo un ginocchio malconcio e non vedendoci più bene.

Conclusioni

Insomma, dalle scarne informazioni trapelate fin’ora, non ci è dato ancora sapere se questo terzo episodio soddisferà i fan dei Ghostbusters, i quali lo attendono da ormai troppo tempo e non ci speravano più. In effetti è passato troppo tempo da allora (ad oggi 21 anni) ma forse è anche un bene poiché il sequel del 1989 mostrava un’evidente inferiorità rispetto al primo episodio. Il film dovrebbe uscire nel 2012, ma avendo già aspettato ventun’anni, questi altri due anni di attesa passeranno in un lampo.

Captain America mostra i muscoli

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Captain America mostra i muscoli

cap america

Per la gioia dei fan, ma soprattutto delle fan di Capitan America, in esclusiva per voi alcune foto dal set del film del supereroe, la cui uscita è prevista nelle sale la prossima estate con il titolo “Captain America: The First Avengers”. Prima dicevamo “soprattutto delle fan”, giacché da una di queste foto – la seguente – è possibile apprezzare l’attore Chris Evans (che interpreta il supereroe) in splendida forma e con un fisico invidiabile:

Lanterna verde: il supereroe DC interpretato da Ryan Reynolds

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Sul grande schermo sta per approdare un altro supereroe: Lanterna verde Dopo i successi pluridecennali di Superman, Batman, Spiderman, o più recenti come quelli di X-Men, I Fantastici 4 e Iron Man, sul grande schermo sta per approdare anche “Green lantern” (Lanterna verde). L’uscita è prevista per il 17 giugno 2011.

Lanterna verde è un personaggio dei fumetti creato nel 1940 dal genio di Martin Nodell e Bill Finger per la Dc Comics (numero 16 di “All american comics). Il fumetto si basa sulla storia del corpo di polizia spaziale denominato “Il Corpo delle Lanterne verdi”, che ha il compito di mantenere l’ordine nell’universo e di fronteggiare i pericoli che ne minacciano l’esistenza. Fondato dal popolo di immortali che vive sul Pianeta Oa, prende il posto del precedente organo di controllo, un gruppo di automi denominato “Manhunters” che ad un certo punto si è ribellato ai Guardiani. Da questa scissione è nata un’accesa guerra che coinvolge l’intero universo; il quale nella storia è diviso in settori, ognuno con propri pianeti membri.

Ogni volta che una Lanterna verde si ritira o perisce, l’anello sonda il Pianeta abitato più vicino alla ricerca di un essere con la determinazione, il coraggio e l’immaginazione necessarie per sfruttare il potere di tale arma. E qui subentra la trama del film: il lungometraggio racconterà di fatto come Hal Jordan sia diventato il primo terrestre a vestire il manto di Lanterna verde del settore 2814, quello in cui è inclusa la Terra, diventando dunque “Green lantern”. Successivamente la sceneggiatura sposta il proprio focus sul corpo delle Lanterne verdi.

Hal Jordan dovrà vedersela con i cattivi Legion e Sinestro. La sua divisa, come da fumetto, è nero-verde. Come tutti i superpoteri, anche quelli prodotti dall’anello hanno però un loro punto debole: il loro potere perde infatti di efficacia contro particolari oggetti.

Il film, prodotto da Warner Bros. e DC Comics – la cui sceneggiatura è stata scritta a “sei mani” da Greg Berlanti, Marc Guggenheim e Michael Green – è diretto da Martin Campbell. Quest’ultimo, neozelandese, vanta all’attivo 15 film e una carriera quasi quarantennale (iniziata nel 1973). Sebbene abbia diretto anche film “impegnati” che raccontano gli orrori delle guerre in Africa, Cambogia e Cecenia, è passato agli onori della cronaca per i due film dedicati a Zorro (“La maschera di Zorro” del 1998 e “La leggenda di Zorro” del 2005) e a James Bond (“007 Goldeneye” del 1996 e “Casino Royale” del 2007).

Nel cast figurano il trentaquattrenne Ryan Reynolds – da poco approdato al Cinema come protagonista di un altro film di successo, “Buried” (Sepolto) – che interpreta Hal Jordan; la bionda Blake Lively che interpreta Carol Ferris; Peter Sarsgaard, già protagonista, tra gli altri, di “Lezioni d’amore” e “Orphan” interpreta il supercriminale Hector Hammond; Mark Strong, (all’anagrafe Marco Giuseppe Salussolia”), scritturato di recente in “Sherlock Holmes” e “Robin Hood” interpreta la lanterna rinnegata Sinestro. Nel cast presenti anche Tim Robbins, attore intenso che spicca in molti film tra cui “Le ali della libertà” e “Mystic River”, e, infine, la brava e sensuale Angela Bassett.

Maggiori informazioni nello nostro speciale.

Lanterna verde

Transformers: Dark of the Moon

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Transformers: Dark of the Moon

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Il terzo episodio dei Transformers, intitolato “Transformers: Dark of the Moon” e annunciato per il primo luglio 2011 in 2D e 3D, comincia ad avere anche qualche immagine. Grazie ad un’esclusiva dell’Entertainment tonight, è infatti possibile visionare un video del backstage del film realizzato durante le riprese a Chicago.

Il cinema di Oliver Stone

Il cinema di Oliver Stone

Oliver Stone è tra i pilastri della cinematografia americana: regista pluripremiato, ma anche capace di suscitare coi suoi film aspre controversie e dibattiti. La sua produzione è ricca – documentari, film, sceneggiature – e le sue esperienze di vita gli hanno spesso fornito spunti per le opere cinematografiche. Ma, andiamo per ordine.

William Oliver Stone nasce a New York il 15 settembre 1946, figlio di un agente di borsa ebreo e di una francese. Si iscrive all’università di Yale nel ’64, ma l’anno dopo la abbandona e parte alla volta del Vietnam, dove insegna inglese. Tornato in patria, nel ’67 si arruola nell’esercito e presta servizio militare proprio in Vietnam. La sua esperienza della guerra inizia il giorno dopo il suo 21° compleanno e termina nel novembre ’68. Il giovane Oliver Stone è ferito due volte e si guadagna due medaglie sul campo. Questa esperienza lo segnerà profondamente e lascerà una marcata impronta sul suo cinema. Al ritorno in patria, Oliver Stone riesce infatti ad elaborare il trauma dell’esperienza vietnamita proprio dedicandosi al cinema. Si forma alla New York University Film School, dove ha tra i suoi insegnanti Martin Scorsese. I primi frutti del lavoro svolto vedono la luce nel ’74 con l’horror “Seizure” e con il cortometraggio “One Year in Viet Nam”. Nel ’76 si trasferisce a Hollywood e inizia la sua attività come sceneggiatore, facendosi subito notare con l’adattamento cinematografico di “Fuga di Mezzanotte”, che gli vale il Premio Oscar per la sceneggiatura e segna la sua affermazione in questo campo. Seguono, nei primi anni ’80, altre sceneggiature importanti: su tutte “Scarface” di Brian De Palma (1983) e “L’anno del dragone” di Michael Cimino (1985). Nel frattempo, Oliver Stone continua il suo lavoro di regista: prima con il thriller “La mano” (1981) e poi con “Salvador” (1986), pellicola con James Woods sulla guerra in Salvador.

La produzione successiva del regista americano verte su quattro grandi temi, che mostrano il suo attaccamento all’America, la sua passione per i temi caldi della storia del paese, la sua finalità etica e il suo amore per la magniloquenza espressiva. Oliver Stone si occupa di Vietnam con una trilogia che comprende “Platoon” (1986), “Nato il quattro luglio” (1989) e “Tra cielo e terra” (1993). Si dedica poi ai presidenti Usa con “JFK – Un caso ancora aperto” (1991), “Gli intrighi del potere – Nixon” (1995) e “W.” (2008). Ha poi a cuore il tema del ruolo dei mass media nella società e il loro rapporto con la violenza, di cui si occupa in “Talk Radio” (1988) e in “Assassini nati” (1994). Infine, altro tema a lui caro è quello dei meccanismi che governano il mondo della finanza e le loro distorsioni, oggetto di “Wall Street” (1987) e “Wall Street – Il denaro non dorme mai” (2010).

Per quel che riguarda i film sul Vietnam, i più significativi sono senza dubbio i primi due. La fama internazionale come regista arriva infatti nel 1986 con “Platoon”, considerato tra le migliori pellicole sulla guerra del Vietnam, insieme ad “Apocalypse now” di Coppola e “Full metal jacket” di Kubrick. L’opera ottiene 7 premi Oscar, tra cui miglior film e miglior regia. In parte ispirata dall’esperienza personale del regista, la pellicola mostra le vicende di un plotone in Vietnam, protagonisti Charlie Sheen nei panni del giovane volontario, Tom Berenger in quelli del sergente senza scrupoli e Willem Defoe nel ruolo del sergente con scrupoli. Racconta un Vietnam  senza filtri, per ciò che è stato, per come il regista stesso l’ha vissuto,  e ne evidenzia l’assurdità, di cui la perdita di riferimenti e valori è conseguenza. Tre anni dopo arriva “Nato il quattro luglio”, ovvero, illusione e disillusione del giovane Ron Kovic (Tom Cruise) che, arruolatosi nell’esercito animato da autentico spirito patriottico, in Vietnam sperimenta l’orrore e l’abiezione umana. Tornato in patria su una sedia a rotelle si scontra con l’indifferenza di un’America che, dopo averli mandati a morire, non si cura dei suoi reduci, per non essere costretta a guardare in faccia la sconfitta subìta. Kovic sopravviverà a tutto questo trovando un altro ideale per cui combattere, non con le armi: quello pacifista. Il film, ispirato alla vera storia di Ron Kovic, è condotto in maniera appassionata da Stone e attira su di lui le prime critiche negative da parte dell’estabilishment, ma gli vale il secondo Oscar alla regia.

In quella che potremmo definire una “trilogia sui presidenti” è notevole il primo film: il discusso “JFK”. Il dibattito è molto acceso, trattandosi di una delle pagine più oscure della storia americana. Stone sfodera un cast assai corposo, con Kevin Costner protagonista nel ruolo del procuratore Garrison – ma ci sono anche Kevin Bacon, Donald Sutherland, Gary Oldman, Jack Lemmon, Walter Matthau. E si impegna in una ricostruzione minuziosa dell’intera vicenda dell’omicidio di John Kennedy, con piglio d’inchiesta. Ma soprattutto, ancora una volta, ci mette la faccia, si espone, si appassiona, sostenendo apertamente la tesi del complotto, in contrasto con le conclusioni raggiunte dall’inchiesta ufficiale, che avevano individuato Lee Oswald come unico responsabile. Il film dunque divide e ha senz’altro il merito di portare alla luce le incongruenze della versione ufficiale. Qui inoltre, Stone fa uso di pellicole di diverso tipo, utilizza colore e bianconero, altra caratteristica del suo cinema. La pellicola ottiene tre premi Oscar per fotografia e montaggio. Da ricordare, quattro anni dopo, il film su Nixon, altra figura controversa della storia americana recente (il presidente dello scandalo Watergate). Per l’occasione dirige Anthony Hopkins, dando anche qui un’interpretazione controcorrente dell’uomo politico: al centro di intrighi e vittima delle proprie debolezze, ma a cui Stone ascrive qualche merito e alcune qualità, sforzandosi di evitare riduzioni troppo semplicistiche.

Non solo la politica, però, è sinonimo di potere. Lo sono anche, a loro modo, i mezzi di comunicazione, sebbene in maniera più subdola e sottile. Stone ne aveva indagato i meccanismi fin dal 1988, con Talk Radio, sempre con un occhio al rapporto tra questi e la collettività e tra questi e violenza. Torna a farlo nel ‘94, su soggetto di Quentin Tarantino, e ne nasce “Assassini nati”. Protagonisti una coppia di pluriomicidi (Juliette Lewis e Woody Harrelson), i cui crimini vengono spettacolarizzati da Tv e media dagli scarsi scrupoli. Nel film convivono l’aspetto splatter – la ferocia, il sangue che scorre a fiumi – e la critica all’”intellighenzia” dei media, che danno inopinatamente popolarità ai due criminali. Il tutto è presentato in una veste nuova, che mescola linguaggi visivi disparati, alterna colore e bianconero, utilizza la chiave grottesca e parodica, in un turbinio delirante che fagocita lo spettatore. Accompagnano il film polemiche inesauribili (a partire da Tarantino, che accusa Stone di aver stravolto a tal punto il suo soggetto da non voler comparire nei credits del film) riguardoalla spettacolarizzazione della violenza e se sia corretto o meno esporla per criticarla, soprattutto perché si pensa che gli aspetti di critica non vengano colti dal pubblico più giovane. Il film finirà per essere vietato ai minori di 14 anni in molti paesi, ai minori di 18 in qualche caso.

Infine, il capitolo finanziario della filmografia del nostro si apre nell’87 con Wall Street. L’argomento, ben conosciuto da Stone, essendo il padre agente di borsa a Wall Street, gli ispira questa pellicola, nella quale Michael Douglas interpreta lo squalo della finanza Gordon Gekko, facendo incetta di premi: Oscar, Golden Globe, Nastro d’Argento e David di Donatello. Accanto a lui nei panni del giovane compagno di malefatte Charlie Sheen. Anche questo potrebbe essere semplicisticamente definito come un film a tesi, che si scaglia con furore contro le storture del mondo finanziario americano, i danni generati da un capitalismo distorto e malato, le speculazioni e l’avidità. Il personaggio di Douglas è però indubbiamente affascinante nella sua spregiudicatezza cinica e vincente, così come poi, nell’epilogo, nell’affrontare la giusta punizione per quella spregiudicatezza. Stone trattava il tema allora, a ridosso del crollo delle borse e torna a farlo adesso, dopo la crisi finanziaria più pesante dal ’29, sempre con Gekko/Douglas, affiancato stavolta da Shia LaBeouf, nei panni del giovane broker in Wall Street-Il denaro non dorme mai.

Il nostro vulcanico regista non si è fatto mancare, poi, pellicole che esulano dalla categorizzazione fin qui esposta, come “The Doors” (1991), in cui ripercorre la storia del gruppo rock americano e la vicenda umana del suo leader, Jim Morrison, anch’esso amato e odiato, considerato da alcuni il miglior tributo possibile alla figura di Morrison (Val Kilmer), da altri un film riduttivo, che scivola nello stereotipo della rock star maledetta e dissoluta per far presa sul pubblico senza rendere giustizia al genio creativo e alla sensibilità di Jim. Gli ex membri dei Doors, tra i secondi, presero decisamente le distanze dal film.

Nel ’99 ha diretto Al Pacino nel fortunato “Ogni maledetta domenica”, nel 2004 ha realizzato “Alexander”, sulla figura di Alessandro Magno, esplorandone le contraddizioni. Nel 2006 è tornato a parlare della sua America con “World Trade Centre”, omaggio alle vittime dell’11 settembre. Da segnalare anche la sua opera di documentarista, concretizzatasi soprattutto negli ultimi anni, con due documentari su Fidel Castro, “Comandante” (2003) e “Looking for Fidel” (2004) e uno sul presidente venezuelano Chavez, “South of the border” (2009).

Labyrinth: recensione del film con David Bowie

Labyrinth: recensione del film con David Bowie

Labyrinth è il film fantasy del 1986 di Jim Henson con David Bowie, Jennifer Connelly, Frank Oz, Warwick Davis, Shelley Thomposn e Toby Froud.

  • Anno: 1986
  • Regia: Jim Henson
  • Cast: David Bowie (Jareth), Jennifer Connelly (Sarah), Frank Oz (il saggio), Warwick Davis (Goblin), Shelley Thompson (matrigna), Toby Froud (Toby)

Labyrinth trama

Sarah, adolescente sognatrice e un po’ ribelle, vive in un mondo tutto suo fatto di fiabe e balocchi, digerendo male il nuovo matrimonio del padre e la nascita del fratellino minore.

Una sera, costretta dal padre e dalla matrigna a badare al fratellino, si ribella al suo destino, raccontando al piccolo che non vuole addormentarsi la storia di una ragazza che chiese aiuto al Re degli Gnomi, Jareth, per non dover badare ad un pargolo viziato e farlo rapire. Così accade anche nella realtà e Jareth rapisce il piccolo Toby: Sarah, disperata, lo sfida, decidendo di sfidare il labirinto della città di Goblin entro dodici ore per poterlo riportare a casa.

Sulla sua strada incontrerà gnomi ed elfi buoni e cattivi, come il prode sir Didymus e il timido Bubo, per recuperare il fratellino e nello stesso tempo per crescere senza dimenticare i suoi sogni.

Labyrinth il fantasy che divenne cult 

Fiaba con più livelli di lettura, Labyrinth presenta una delle prove più amate e popolari di David Bowie come attore, affascinante e inquietante nel ruolo di Jareth e consacra la quasi esordiente Jennifer Connelly, già ragazzina che dialogava con gli insetti per Dario Argento in Phenomena, nella parte di Sarah, divisa tra realtà e fantasia, infanzia e età adulta, prime pulsioni sensuali e voglia di rimanere in mezzo ai sogni, come è simboleggiato dall’onirica e disturbante sequenza del ballo a palazzo.

 

Arricchito da una serie di creature magiche non generate dal computer e basate sulle leggende popolari anglosassoni e sull’opera dell’artista Brian Froud, che al Piccolo Popolo ha dedicato varie opere, Labyrinth è una fiaba di iniziazione all’età adulta, la storia della ricerca e del salvataggio di qualcosa di prezioso, morale ma senza facili moralismi, dove Sarah, la protagonista, rievoca Alice e Dorothy del Mago di Oz in una chiave più moderna, all’interno delle famiglie disgregate e allargate in cui gelosia e disorientamento possono obiettivamente farla da padrone e in cui la fantasia e il chiudersi in se stessi possono sembrare le uniche strade, in un momento storico in cui tra l’altro il computer con gli annessi e connessi non avevano ancora lo spazio di oggi.

L’accettazione del diverso, la lotta contro il destino ineluttabile imposto da Jareth, una ricerca di un nuovo sé che non rinneghi il precedente ma lo migliori sono tutte tematiche del film, in cui Sarah diventa amica di gnomi ed elfi anche brutti e deformi, si oppone alle ingiustizie in fondo provocate da lei perché non ha saputo dosare le parole e ha provocato qualcosa che non doveva succedere, cerca una nuova identità di se stessa in cui però sono ancora importanti i sogni, dei quali non bisogna essere schiavi (emblematica a questo proposito la scena con la vecchietta degli stracci), ma che possono aiutare a vivere meglio. In fondo Sarah riesce nel suo intento grazie ad uno dei suoi libri preferiti e nel finale è chiaro che lei ha e avrà sempre bisogno della sua fantasia, per riempire una vita che potrebbe altrimenti diventare insopportabile.

Labyrinth

Sotto sotto si potrebbe anche vedere una velata critica al consumismo occidentale che ha riempito le nostre case di oggetti spesso futili ma assurti al livello di totem: certo che la cameretta di Sarah ha riempito non poco i sogni delle sue coetanee dell’epoca, tra romanticismo e peluches, specchi magici e libri, tra cui si vede una rara edizione inglese di Biancaneve e i sette nani ispirata al capolavoro di Walt Disney.

Molto amato dall’autrice di manga dark Kaori Yuki, che l’ha citato nel suo Angel Sanctuary, cult anni Ottanta poi sparito per anni dai nostri schermi per poi tornare di recente grazie ad una buona edizione in dvd, Labyrinth è un film da vedere o rivedere, come fiaba iniziatica o anche semplicemente come oggetto di nostalgia di un decennio che ormai sembra remoto, in cui il cinema di genere fantastico forse era meno schiavo degli effetti speciali di oggi e attingeva al folklore e alle fiabe tradizionali, creando storie interessanti e intriganti, capaci di essere universali ancora oggi.

Lady Hawke, il film culto di Richard Donner

Lady Hawke, il film culto di Richard Donner

Lady Hawke è il film del 1985 diretto da Richard Donner e con protagonisti Rutger Hauer (Etienne Navarre), Michelle Pfeiffer (Isabeau), Matthew Broderick (Philippe), Leo Mc Kern (Imperius) e John Wood (vescovo).

Lady Hawke, la trama

Francia, Medio Evo: il ladruncolo Philippe scappa dalle prigioni del temibile vescovo di Aguillon e si addentra fuori dalle mura, incontrando il misterioso e taciturno cavaliere Navarre, accompagnato da un falco, che gli salva la vita. Unitosi a lui un po’ per riconoscenza un po’ perché non sa dove andare, Philippe comincia ad intuire che c’è qualcosa di strano nel suo salvatore, oltre la sua evidente ribellione contro l’autorità del Vescovo, soprattutto quando di notte Navarre scompare ed appare una bellissima donna, Isabeau, accompagnata da un fedele lupo.

Sarà Imperius, un monaco eremita presso il quale si rifugierà con Navarre a raccontargli tutta la storia, quella di Navarre ed Isabeau, il cui amore è stato distrutto dai riti malefici del vescovo, che ha condannato entrambi a diventare lei di giorno un falco e lui di notte un lupo, senza potersi mai incontrare, finché ci saranno giorni e notti, finché sarà dato a loro di vivere.  Mentre Navarre decide di affrontare definitivamente il Vescovo, Imperius con Philippe scoprono che forse c’è un modo davvero per mettere fine alla maledizione e permettere ai due amanti di poter vivere insieme felici e contenti…

Lady Hawke, l’analisi

Girato tra i dintorni di Parma, Piacenza, Cremona, nel Parco Nazionale del Gran Sasso e a Campo Imperatore, in provincia dell’Aquila, oggi duramente colpita dal terremoto del 2009, Lady Hawke è una fiaba in costume medievale, con toni da filmone storico, passione, amore, dramma, violenza, duelli e la scelta di assurgere ad eroi di tutto gli outsider, un ragazzo che vive di furti, un cavaliere di ventura rinnegato e desideroso di portare avanti la sua vendetta e un eremita che ha rinunciato ai fasti di una posizione all’interno della Chiesa dell’epoca, le cui gerarchie sono simbolo di corruzione e di ogni tipo di nefandezze.

Non c’è poi nessun tipo di critica sociale o alla Chiesa, e tutto si svolge in un’avventura colorata ed avvincente, tra panorami mozzafiato non ritoccati al computer, antichi borghi con fortezze e chiese, per una storia d’avventura e di magia, più vicina a certi film in costume che al fantasy vero e proprio salvo che per le tematiche di fondo, indubbiamente fantasiose, ma non per questo meno affascinante e intrigante, sfruttando anche il topos antichissimo delle trasformazioni in animali, qui subite ma non scelte.

Lady Hawke filmBella anche la scelta di sceneggiatura di far scoprire tutto dagli occhi di Philippe, ragazzo meno che comune, vicino probabilmente a molti dei suoi spettatori, che rimarrà coinvolto dalla vicenda, arrivando fino in fondo e alla fine si allontanerà con il nuovo amico Imperius, promettendosi di scassinare la porta del Paradiso, per tornare alla sua vita di sempre, dopo essere stato eroe per qualche giorno.

Matthew Broderick, allora uno degli attori giovani più popolari dopo il cult protoinformatico Wargames è un ottimo Philippe, e la coppia dei due amanti maledetti, interpretata dal Rutger Hauer ex replicante di Blade Runner allora in piena forma e da Michelle Pfeiffer che con questo film si affermò presso il grande pubblico, sa far sognare, coinvolgere e commuovere, facendo anche perdonare il finale da teleromanzo ma alla fine catartico e liberatorio. Ci va, insomma.

Tra i comprimari, dove ci sono parecchi nomi italiani così come nello staff tecnico, spiccano anche i caratteristi John Wood, perfido vescovo, e Leo Mc Kern, caratterista del cinema britannico in decine di film, qui forse in una delle sue più riuscite interpretazioni, a rappresentare il bene disarmato degli animi semplici contrapposto al male del potere.

Molti anni prima del boom del fantasy Lady Hawke seppe raccontare una fiaba per adulti mescolando realtà e magia con sapienza e gusto dello spettacolo: le numerose repliche televisive l’hanno reso uno dei film spesso più visti non solo dai cultori del genere, ma si tratta comunque di un classico da vedere e rivedere, emblema di un cinema che sa parlare di immaginazione e fantasia pur essendo molto realistico, lasciando al minimo gli effetti speciali per narrare una storia magica e eterna come dovrebbero essere le fiabe.

Flash of genius, il film di Marc Abraham

Flash of genius, il film di Marc Abraham

FLASH OF GENIUS di Marc Abraham, USA/Canada 2008

Flash of geniusTratto da una storia vera, il film propone un ritratto cinico della New York degli anni ’60, del potere delle sue major e degli uomini che ne muovono i fili. Basato sull’invenzione del tergicristallo automatizzato mostra come le grandi società di un tempo si sapevano muovere senza scrupoli assimilando quanto più possibile, distruggendo la concorrenza e qualunque altra piccola goccia non rientrasse nel loro oceano.

Robert Kearns, professore universitario cieco da un occhio, dopo una geniale intuizione come il funzionamento di un tergicristallo automatizzato, riesce a proporre il suo brevetto alla grande azienda della Ford. Truffato e derubato della sua idea la multinazionale lancia sul mercato il suo prodotto senza che Kearns abbia il benché minimo merito.

Da qui in poi inizia una lotta legale senza precedenti per inseguire un ideale e ottenere giustizia, per un qualcosa che va al di là dei soldi e dell’aspetto economico, per un qualcosa di più grande. Opera prima (e fin’ora unica) per Marc Abraham molto più noto per la sua proficua attività di produzione (Air Force One e Spy Game solo per citarne alcuni) che per questo progetto dirige un cast di attori non di primissimo piano.

Protagonista Greg Kinnear che vanta un ampio curriculum ma che ancora non è riuscito ad ottenere ruoli che lo rendano riconoscibile allo spettatore medio (“casa nostra” parlando), e che ha offerto le migliori interpretazioni in Qualcosa è cambiato (che gli valse una nomination agli Oscar) e in Little miss sunshine. In questo caso si cimenta di nuovo in un film dal tono documentaristico come già successo nel meno recente Fast food nation, per un ruolo che oramai sembra essergli stato cucito addosso. Gli altri ruoli sono stati affidati a Lauren Graham (Lorelai Gilmore in Una mamma per amica), Dermont Mulroney (Il matrimonio del mio migliore amico) e Mitch Pileggi (il vicedirettore Skinner in X-Files).

Flash of genius, il film di Marc Abraham

Nel complesso il film è senz’altro buono e interessante, anche se si possono incontrare diversi punti lenti ma inevitabili visto che si tratta di una storia realmente accaduta che cerca di ripercorrere passo per passo gli eventi accaduti.

Risultato mediocre ai botteghini americani e un rapido quanto invisibile passaggio in Italia per un film che difficilmente riesce a coinvolgere il pubblico e che trova persino difficoltà a trovare un pubblico a cui rivolgersi. Rimane comunque un film che offre diversi spunti di riflessione sulla società di allora e su quella odierna proponendosi come strumento per poterle paragonare e farsi qualche domanda.

Tokyo Godfathers: recensione del film d’animazione

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Tokyo Godfathers: recensione del film d’animazione

La recensione del film d’animazione Tokyo Godfathers  diretto da Satoshi Kon con le voci di Angelo Nicotra (Gin), Letizia Scifoni (Miyuki), Sergio di Stefano (Hana), Eleonora de Angelis (Sakiko).

Tre senzatetto di Tokyo, Gin, un alcolizzato che ha perso famiglia e lavoro, Hana, un transgender, e Miyuki, ragazzina fuggita di casa, trovano la notte di Natale una neonata abbandonata. Gin e Miyuki vorrebbero andare alla polizia, ma Hana insiste per tenere la piccola, e tutti e tre insieme inizieranno a vagare per Tokyo e dintorni, tra Natale e Capodanno, per ritrovare la vera madre della piccola, tra bande di yakuza, immigrati, depressione degli abitanti sotto le feste, facendo anche i conti con il loro passato che li ha portati, sia pure partendo da premesse diverse, a scegliere la strada.

Sinossi:

Tre senzatetto di Tokyo, Gin, un alcolizzato che ha perso famiglia e lavoro, Hana, un transgender, e Miyuki, ragazzina fuggita di casa, trovano la notte di Natale una neonata abbandonata. Gin e Miyuki vorrebbero andare alla polizia, ma Hana insiste per tenere la piccola, e tutti e tre insieme inizieranno a vagare per Tokyo e dintorni, tra Natale e Capodanno, per ritrovare la vera madre della piccola, tra bande di yakuza, immigrati, depressione degli abitanti sotto le feste, facendo anche i conti con il loro passato che li ha portati, sia pure partendo da premesse diverse, a scegliere la strada.

Tokyo Godfathers: recensione del film d’animazione

Satoshi Kon, regista nipponico scomparso di recente a soli 47 anni stroncato da un male incurabile, preferiva nelle sue opere d’animazione mescolare realtà e fantasia, atmosfere oniriche e cambi di prospettiva temporale, con risultati anche molto intriganti.

Qui invece sceglie di raccontare una favola natalizia urbana, non dimenticando uno spaccato anche molto crudo e duro di realtà, riuscendo a creare quello che può essere considerato il suo film più riuscito se non il suo capolavoro, senza sbavature fantasiose ma riuscendo a raccontare appunto una fiaba moderna con toni che possono rievocare sia Frank Capra che Vittorio De Sica.

Si può scomodare il classico western In nome di Dio di John Ford con John Wayne, che presentava una storia analoga, ma Tokyo Godfathers vuole lanciare anche uno sguardo disincantato sul Giappone contemporaneo, consumistico e che vuole nascondere le realtà scomode, argomento questo praticamente mai trattato nei manga e negli anime che preferiscono rifugiarsi in realtà parallele, a volte anche non idilliache (basti pensare alla Tokyo futuribile di Akira di Katsuhiro Otomo e al mondo distrutto dalla guerra atomica di Ken il guerriero di Tetsuo Hara e Buronson), ma che difficilmente si interroga sulla società giapponese di oggi.

Con i tre antieroi di questa vicenda, un’adolescente ribelle scappata di casa, in una società in cui ci si chiude invece in casa se non si accetta il mondo fuori, un transgender in un mondo in cui il transessualismo e il travestitismo è bene accetto solo appunto nei manga, e un alcolista che ha perso tutto, dramma non solo nipponico, si scopre il Giappone di oggi, in cui convivono suggestioni occidentali e orientali, in cui la yakuza ha un potere sempre più grande, in cui ci sono sempre più abitanti immigrati che non vengono considerati pur producendo ricchezza e dando servizi, e in cui soprattutto ci si dimentica degli esclusi locali, i senzatetto, totalmente invisibili nelle inchieste e ormai massicciamente presenti anche nelle vie nipponiche così come a Londra, Parigi, New York o Milano, dove però esistono progetti per loro e anche un minimo di considerazione in più.

Tokyo Godfathers

Le nuove povertà sono quindi un argomento importante in un film che vuole essere una fiaba morale ma non moralista, dove alla fine, tra mille peripezie si può riprovare a ritrovare se stessi e una propria strada, non più per strada, per i tre antieroi di questa epopea urbana, in cerca in definitiva di se stessi e di un nuovo senso da dare alla propria vita.

In Italia Tokyo Godfathers ha avuto una limitata diffusione al cinema, prima di approdare al mercato dell’home video, non riuscendo nemmeno questa volta a superare gli stereotipi che vedono l’animazione giapponese come commerciale, dozzinale, poco interessante per i contenuti e che non merita la diffusione nelle sale dell’ultimo Disney, magari fatto tutto in tridimensionale al computer.

Sia per chi segue manga ed anime e sa che non sono solo commerciali e dozzinali, sia per chi vuole cercare nuove strade di raccontare storie reali a fronte appunto di un appiattimento del cinema d’animazione d’oltre oceano verso lì sì la vendita dell’ultimo Happy Meal e dell’ultimo videogioco della Playstation, Tokyo Godfathers è senz’altro un film da scoprire e riscoprire, che dimostra come l’animazione non è e deve essere solo un genere per storielle per bambini, ma un mezzo per raccontare storie a tutto tondo.

In un mondo migliore: recensione del film di Susanne Bier

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In un mondo migliore: recensione del film di Susanne Bier

Accolto a braccia aperte dal pubblico romano e dalla giuria del Festival Internazionale del film di Roma 2010, Hævnen – In un mondo migliore di Susanne Bier, conquista un po’ tutti mettendo d’accordo critica e pubblico … più o meno.

In un mondo migliore racconta due storie parallele: un uomo che fa il medico in un accampamento in Africa, è alle prese tutti i giorni con sofferenze atroci e con alle spalle un matrimonio che sta franando; suo figlio Elias fatica a trovare un posto nella sua vita, e nel microcosmo della scuola, vessato in continuazione dai ragazzi più grandi. Al filone principale di queste due vite che si toccano, si aggiunge anche la storia di Christian, ragazzino orfano di madre che riesce ad esternare il suo dolore e la sofferenza per un padre assente solo attraverso il vandalismo. Christian e Elias diventeranno piano piano amici, ma a che prezzo?

La storia della Bier si muove in due mondi affascinanti, quello desertico dell’Africa e quello algido e marino della Danimarca seguendo i percorsi dei suoi personaggi senza però affondare nelle loro vite, raccontando i fatti come si svolgono, nelle loro inevitabili tangenze e contingenze, ma senza affrontare mai di petto uno o più temi che mette al fuoco. La difficile metabolizzazione del dolore, la paura, la violenza, le conseguenze di atti incoscienti, il tradimento, la crescita e la vita adulta. Tutto viene sbattuto in faccia allo spettatore che pur ammaliato dalle belle immagini paesaggistiche non riesce, o per lo meno così è sembrato a chi scrive, a trovare una vera e propria necessità in una messa in gioco così massiccia di argomenti che finisco per essere tutti più o meno trascurati. Forse si resta accecati dall’eccessivo sbilanciamento della pellicola, che mette in scena una realtà contraddittoria, dove accanto alle atrocità più efferate sono mostrati anche i lieto fine che nella vita reale non sussisterebbero né potrebbero mai esistere tra essere umani.

In un mondo migliore però acquista valore soprattutto nella figura di uno dei due giovani protagonisti, William Jøhnk Juels Nielsen che interpreta il ribelle Christian, alle prese con un ruolo difficile ma che riesce a rendere con estrema precisione ed espressività sul grande schermo. Resta purtroppo più di una lacuna nella sceneggiatura, che come già accennato, rincorre troppi temi, senza metterne a fuoco davvero nessuno: il film appare dunque come un bel discorso, articolato e complesso, ma incompiuto.

Il Responsabile delle Risorse Umane: recensione

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Il Responsabile delle Risorse Umane: recensione

A presentare Il Responsabile delle Risorse Umane del regista israeliano Eran Riklis (che ha diretto nel 2008 il film “Il giardino dei limoni” ), ci sono già il celebre e omonimo romanzo di Abraham B. Yehoshua (dal quale è partito l’adattamento cinematografico di Riklis), nonché il Premio del Pubblico del Festival di Locarno 2010 e il primo premio cinematografico israeliano, l’Ophir, che la pellicola si è già aggiudicati.

Eppure Il Responsabile delle Risorse Umane di Eran Riklis non si risparmia dallo stupire. In un commento a caldo si potrebbe dire che è una pellicola nella quale tutto è dove non dovrebbe essere, condizione edificata con sagacia dalle scelte di regia, che si sono allo stesso tempo curate di non lasciar spazio a disomogeneità, pesantezza e incongruenza del tessuto narrativo. Il Responsabile delle Risorse Umane si apre con un velo di apparente ordine e metodicità che lentamente va a diradarsi,  trasportando lo spettatore, ma soprattutto gli interpreti,  a chiedersi quanto di quel che è da poco apparso sia sul serio consistente e privo di preconcetti. Ammalianti sono sia la sensibilità che la discrezione attentissima con la quale tutto questo inizia a realizzarsi e distinguersi.

Il Responsabile delle Risorse Umane, il film

Il regista scava infatti con minuzia prima di condurre a quel che ha da dire e di lasciar la parola ai suoi protagonisti…come se attendesse egli per primo che siano pronti, protagonisti quanto spettatori, ai propri momenti giusti, che in ogni caso non si impongono con rapide epifanie,  grandi tragedie, o prese di coscienza spasmodiche, ma piuttosto con graduali,  verosimili e maturi piccoli passi.  La pazienza e la gradualità sono quel che rendono finalmente protagonisti ognuno dei personaggi , che conquistano dunque il loro ordine reale e calibrato all’interno della storia.

Ma prima dell’equilibrio, rimane una storia che si divarica tra: un padre che vorrebbe esser presente nella vita di sua figlia, ma che si ritrova a far da genitore a un giovane ribelle orfano di madre, per conquistare la cui fiducia rischia di perdere quella della sua stessa figlia; un giornalista che, in lotta contro il cinismo e la disaffezione che ritiene essere caratteristica specifica del sistema aziendale, si scontra soprattutto con i propri limiti e le proprie amoralità; un capro espiatorio messo alla gogna, che dimostra quasi più umanità di chi lo accusa; un amore che resiste, proprio perché fondato su due cuori che parlano fisicamente due lingue diverse, e infine una donna, che unico artefice dell’incontro di tutti gli altri personaggi, forse è proprio l’unica che nessuno conosce e della quale nessuno conosce nulla….ecco appunto, come si diceva in apertura, un film nel quale ogni cosa viene messa nel posto sbagliato ma che, in ragione di questa scelta e nonostante il film duri quasi due ore, riesce a catturare completamente l’attenzione.

Dietro a tutto questo, velato, il conflitto eterno dei popoli palestinese e israeliano, costretti a sfiorarsi e a guardarsi; non mancano d’altra parte brevi , saltuarie ma puntuali note sul terrorismo che, artefice dell’avvio narrativo, ritorna ogni qual volta i personaggi si confrontano con la quotidianità. Pochi e comunque leggeri i momenti di grigia malinconia; forte e determinata l’immagine dei personaggi e degli interpreti. Di spirito e mai scontati i momenti di umorismo ed ironia. Insomma un film splendidamente dosato. Dosato nei tempi, nei toni, nei messaggi e nelle aspettative. Bellissimo.

Kill me please: recensione del film di Olias Barco

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Kill me please: recensione del film di Olias Barco

Kill me please. Già dal titolo si intuisce che qualcosa non funziona, non va tutto per il verso giusto, si pensa addirittura a qualcosa che fa eco alla famosa canzone, Killing me Softly, un film magari su una storia d’amore morbosa o simili. Le luci si spengono e si accende lo schermo. Bianco e nero, niente musica, pochi rumori e molti momenti di silenzio, tutti i presupposti per un film … noioso.

E piano piano scopriamo di cosa si tratta: una bella villa, isolata in mezzo ad un bosco innevato, ospita una clinica. Ma di cosa si tratta? Anche questo ci viene rivelato poco a poco: è una clinica dove si assistono i suicidi, dove le persone che vogliono togliersi la vita vengono assistiti dal dottor Krueger, che prova a dissuaderli in maniera piuttosto blanda. Ci sono i malati terminali, i depressi, quelli che semplicemente sono stanchi di vivere. Quello che si presentava come un film noioso e immobile si rivela essere un incredibile affresco esilarante e grottesco dell’umanità che percorre la sua vita senza una vera e propria coscienza di sé.

C’è la cantante d’opera che dopo la diagnosi di un tumore al polmone, vuole morire, non prima di aver cantato la Marsigliese ad un piccolo pubblico; c’è lo psicopatico che vuole morire perché l’ha sempre sognato, sin da bambino, ma non riesce a farlo da solo; c’è l’attore caduto in depressione che finge di essere un malato terminale e l’uomo indeciso che ha perso la moglie … in una mano di poker! Diverse realtà si incrociano e si scontrano in questo groviglio di esilarante disperazione, fino a scoppiare in un finale senza senso che acuisce l’ilarità dello spettatore, completamente immerso in questo mondo alla rovescia, dove i pazienti vogliono morire e dove il medico alla fine rivelerà la sua profonda inadeguatezza a ricoprire un ruolo così importante. Kill Me Please mantiene un certo grado di mistero poiché alla fine non ci è rivelato né il luogo geografico, né chi è il mandante della strage finale, né tantomeno quale sarà il destino di questa clinica sui generis.

La sua forza tuttavia resta nella profonda contraddizione che si presenta agli occhi dello spettatore così assurda da essere irresistibile. Divertente oltre ogni aspettativa, Kill me please è un film che cresce piano piano nel cuore dello spettatore, regalando 95 minuti di grasse risate attraverso l’assurdità dei personaggi, delle loro dinamiche interpersonali e del loro rapporto con la vita e la morte, sfociando in un finale di gustosa confusione narrativa che corona un’esperienza surreale. Premiato a Roma come miglior film, Kill Me Please  è diretto da Olias Barco che ne ha curato anche la sceneggiatura insieme a Virgile Bramly, interprete di uno dei personaggi più riusciti di tutto il film.

Alice va al Festival

Quando andavo alle medie i miei professori organizzavano le trasferte al Festival di Giffoni. Io non vedevo l’ora che toccasse alla mia classe, e finalmente un giorno siamo partiti per la provincia di Salerno. Che bella giornata che fu! Non ricordo il film che vedemmo, ma ricordo ‘l’atmosfera di Festival’ che ho ritrovato solo tanto tempo dopo al Festival di Roma.

Ho pensato alla mia piccola esperienza al GFF soprattutto nel contesto di Alice nella Città, la sezione del festival romano dedicata ai giovani e giovanissimi, diretta da Gianluca Giannelli. È incredibile quante emozioni una sezione ‘minore’ riesca a dare allo spettatore furbo, perché l’animale da Festival sa bene che a Roma, per divertirsi ed emozionarsi deve passare per Alice. E quest’anno, come in quelli passati, la sezione non ha deluso le aspettative offrendo grandi interpretazione per piccoli attori affrontando come al solito temi importanti come l’amore, la famiglia, il razzismo e il dolore, sempre mantenendo il morale dei giovani spettatori alto.

A cominciare da Leila, musical anticonformista sullo scontro sociale e razziale in una Parigi colorata e musicale passando per l’Irlanda di The Runaway, la storia vera della costruzione di una pista di decollo in una silente cittadina gaelica. Presenti anche i grandi interpreti del cinema mondiale come John Hurt, che in Lou interpreta un anziano malato di Alzheimer, che trova nella nipote sconosciuta, la 12enne Lou, il suo equilibrio e la sua parziale serenità. Ricordiamo che lo scorso anno vinse il Premio Marc’Aurelio d’Argento Alice nella città (sopra i 12 anni) Last Ride, con protagonista un eccezionale Hugo Weaving, a dimostrazione che ‘sezione collaterale’ non significa per forza ‘cinema minore’.

Anzi come già anticipato, Alice, un po’ come Extra, offre quei film che purtroppo vanno persi nel vortice del mercato cinematografico, e che gran parte del pubblico non potrei mai vedere. Quest’anno un altro grande evento ha popolato la sezione in questione, la presentazione di Winx club 3D, un prodotto animato realizzato con le più moderne tecniche di stereoscopia, totalmente italiano, con personale, fondi e attrezzature made in Italy e sotto la guida di Iginio Sraffi, ideatore della serie Tv animata.

Ma ancora, abbiamo visto i viaggi nel tempo di Quartier Lointain di Sam Garbarski (Belgio/Francia), e il potente I Want to Be a Soldier che ha vinto nella sezione sotto i 12 anni, prodotto dalla nostra Valeria Marini e magistralmente girato da Christian Molina. Il film si presenta come un metaforico affresco del risultato della violenza mediatica e del suo effetto sui più piccoli; tra palesi omaggi kubrickiani e una regia fortemente espressionista il film ha conquistato il mio cuore, oltre che la giuria di giovanissimi che a ragione l’ha premiato.

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Altro vincitore, per la categoria sopra ai 12 anni, Adem bel ritratto dell’amore oltre i limiti fisici di due ragazzi malati di fibrosi cistica.

Ho visto le proiezioni con i piccoli giurati e i ragazzi delle scuole che mi hanno ricordato la mia prima esperienza alle prese con un festival, li ho un po’ invidiati, hanno una grande responsabilità come pubblico del buon cinema, e grazie ad Alice nella Città hanno anche la possibilità di formare un gusto per il buoi della sala che a molti altri non è data.

Un Festival EXTRA-ordinario

Un Festival EXTRA-ordinario

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Cos’ha il Festival Internazionale del Film di Roma di tanto speciale? Per me non si tratta solo del Festival nella città del Cinema, non è solo una kermesse ambientata in un bellissimo complesso, quello dell’Auditorium di Renzo Piano, né tantomeno si riduce ad una sfilata di vip più o meno noti sul tappeto rosso (quest’anno bellissimo)della cavea.

Porco Rosso: recensione del film di Hayao Miyazaki

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Porco Rosso: recensione del film di Hayao Miyazaki

Dopo il suo ultimo film al cinema Ponyo sulla scogliera, come sempre delicato e commovente, il maestro del cinema d’animazione giapponese Hayao Miyazaki torna al cinema con Porco Rosso (Kurenai no Buta) film datato 1992 che, finalmente doppiato in italiano, esce nelle sale del nostro Paese il 12 novembre.

Porco Rosso racconta la storia, ambientata negli anni ’30, di Porco Rosso, un aviatore, trasformato per magia in maiale, che combatte i pirati dell’aria sul mar Adriatico. Come ogni opera di Miyazaki che si rispetti anche Porco Rosso è attraversato da quella vena narrativa malinconica e dolce che ci ha fatto amare tutti i suoi capolavori. Anche in questo caso è presente l’elemento magico della trasformazione, che coincide per certi versi con il viaggio iniziatico della piccola protagonista Fio, geniale ingegnere di alianti.

Porco Rosso

Costellato di numerosi personaggi, alcuni romantici, altri caricaturali, il film si lascia guardare, permettendo allo spettatore di immergersi in un ambiente magico, che per lo spettatore italiano sarà difficile identificare con il ‘nostro’ mar Adriatico, ma che considerando il punto di vista giapponese si colloca perfettamente nell’ottica di un luogo esotico nel quale si svolgono storie avventurose e remote. Punto di equilibrio del film è sicuramente un finale aperto che aggiunge fascino ad un’opera senza dubbio di valore, nata per gioco e sfociata in un bellissimo cartone animato per grandi e piccoli, come sempre succede quando ci troviamo davanti a Miyazaki.

Porco Rosso doppiato in italiano è stato presentato in anteprima italiana durante il Festival Internazionale del Film di Roma, all’interno di una retrospettiva dedicata al famoso studio Ghibli, casa di produzione che da anni permette a questi capolavori dell’animazione di vedere la luce, o meglio, il buio della sala.

The Social Network: recensione del film di David Fincher

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The Social Network: recensione del film di David Fincher

The Social Network è l’acclamato film del 2010 diretto da David Fincher, incentrato sui fondatori di Facebook e sul fenomeno popolare che ha creato. Tutto il mondo ormai lo usa senza neanche ricordare che non molto tempo fa non esisteva nemmeno. Si tratta di Facebook, il social network che ha invaso ogni angolo del pianeta, lo strumento telematico più democratico che sia mai esistito e grazie al quale tutti, intelligenti o stupidi, ricchi o poveri, possono esser protagonisti della propria vita, diventando superstar per la breve durata di un click del mouse sul proprio ‘profilo’. Ma com’è nato Facebook?

The Social Network, la storia del “genio”

Tutti, o quasi conosciamo il nome dell’inventore, Mark Zuckerberg, diventato in brevissimo tempo il miliardario più giovane del Mondo, ma quali sono state le dinamiche alla base della creazione di una rete di contatti così popolare? David Fincher con The Social Network ci racconta questa storia, l’ascesa di Zuckerberg e i conseguenti problemi che hanno portato al consolidamento del suo posto sulla vetta del mondo.

Personaggio chiuso e con un’intelligenza fuori dal comune, Zuckerberg è interpretato sullo schermo da Jesse Eisenberg, giovane e capace attore che ne mette in mostra i tic e le fobie, dipingendo una figura di giovane irrisolto, quasi sociopatico. Il film, già record di incassi negli States, arriva sui nostri schermi portandosi dietro un ingombrante peso di aspettative altissime, che purtroppo non vengono soddisfatte appieno, Fincher ci racconta con fedeltà una storia forse troppo recente per possedere quel fascino di ricostruzione storica che il film pure rappresenta in maniera efficace.

The Social Network si distingue quindi per la sua sceneggiatura brillante e per l’inevitabile simpatia che questo personaggio riscontra nel pubblico, ma come già gli era successo con Il Curioso Caso di Benjamin Button, il regista pecca di un’eccessiva lunghezza del film che ne diluisce la potenza narrativa appesantendo inevitabilmente una storia che poteva essere ugualmente efficace con 30 o 40 minuti di meno.

The Social Network filmTuttavia resta ad Eisenberg il merito di un’interpretazione convincente che permetterà al giovane attore di ottenere ruoli promettenti per il suo prossimo futuro. Non si parla qui di interpretazione da Oscar, come pure è stato detto, ma sicuramente si sentirà parlare presto di questo giovanotto dalla faccia pulita e dall’espressione innocente. Il finale del film, forse troppo documentaristico, lascia l’amaro in bocca allo spettatore più esigente, forse per troppa voglia di spettacolarizzazione, o forse semplicemente perché la realtà che Fincher ci mostra è molto meno romantica e cinematografica di qualsiasi altra storia di finzione.

Nel cast di The Social Network , oltre ad Eisenberg, anche Justin Timberlake nel ruolo di Sean Parker, inventore di Napster e Andrew Garfield, che interpreta Eduardo Saverin, cofondatore di Facebook.

Aaron Eckhart in fuga nel suo nuovo film

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Aaron-Eckhart

Dopo la gradita presenza a Roma per presentare in concorso il suo Rabbit Hole, Aaron Eckhart interpreterà The Expatriate, un film in stile Jason Bourne che  lo vedrà in fuga per l’Europa nella veste di un agente della CIA.

Posticipate le riprese per Tim Burton

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Partiranno ad aprile 2011 le riprese di Dark Shadows, il nuovo film della collaudatissima coppia formata da Tim Burton dietro e Johnny Depp davanti alla macchina da presa. L’inizio delle riprese era inizialmente previsto per gennaio 2011.

I numeri della quinta edizione

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I numeri della quinta edizione

Harry Potter e i doni della morte parte 1: altre clip e backstage

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A due settimane dall’uscita  e dopo le tre clip uscite negli ultimi giorni, ecco anche la quarta scena da Harry Potter e i Doni della Morte – parte 1, più una serie di altri video, tutti più o meno ricchi di spoiler.

 

Una clip: Harry, Ron e Hermione nella tavola calda a Londra:

Dieci minuti dietro le quinte…

Harry Potter e i doni della morte parte 1: terza clip

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La terza clip da Harry Potter e i Doni della Morte – parte 1 è disponibile in esclusiva per gli abbonati al LA Times; eccone però una versione bootleg, che potete vedere direttamente qui sotto: “si tratta della scena in cui Harry & Co. vengono catturati e portati a Villa Malfoy, dove li attende Bellatrix Lestrange (Helena Bonham Carter).”

 

Festival del film di Roma: i premi ufficiali della quinta edizione

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Sono stati appena annunciati i vincitori del Festival del Cinema di Roma 2010.  “Voglio ringraziare il pubblico di questa quinta edizione del Festival di Roma che e’ stato il vero protagonista della manifestazione con il suo entusiasmo”. Con queste parole il direttore artistico del Festival di Roma Piera Detassis ha aperto la cerimonia di premiazione della manifestazione capitolina.

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