Taxidermia: recensione del film di György Pálfi

Taxidermia Film

Taxidermia è il film del 2006 diretto da György Pálfi e con protagonisti nel cast Csaba Czene, Gergely Trocsanyi, Marc Bischoff,  Geza Hegedus D., Adel Stanczel.

 

La trama di Taxidermia

Tre generazioni di uomini, il nonno Vendel (Czene), suo figlio Kalman (Trocsanyi), e il di lui figlio Lajoska (Bischoff) attraverso tre periodi  dal Secondo conflitto mondiale passando per l’epoca della repubblica comunista, fino ai giorni nostri.

Vendel è un soldato erotomane dalle fantasie perverse e surreali, Kalman è un obeso campione di abbuffata sportiva durante il regime comunista.

Lajoska, suo figlio, è invece un esile imbalsamatore che cercherà di impagliarsi morendo, dopo aver imbalsamato il padre divorato da enormi gatti…

La recensione del film Taxidermia

Analisi: Il secondo lungometraggio dell’ungherese Pálfi (dopo Hukkle, 2002), presentato al 56esimo festival di Cannes non ha trovato in Italia la meritata distribuzione. È di sicuro un film per “stomaci forti”, con una visionarietà debordante degna di Jodorowsky e con gli sberleffi indigesti di un Makavejev o gli shock grotteschi di un Ferreri nell’affrontare le tematiche tabù connesse al corpo (sesso, cibo, morte). Ho fatto i nomi di tre registi di punta negli anni ’70, e forse perché, a parte il giapponese Takashi Miike e un certo Cronenberg (quello di Videodrome, La mosca, e Inseparabili), Pálfi non ha parenti prossimi nella contemporaneità quanto a coraggio e inventiva nel mostrare ciò che non siamo (più) abituati a vedere.

Forse proprio per questo, non solo il sottoscritto, ma anche altri che hanno detto qualcosa sul film in esame (demonizzandolo o osannandolo comunque sempre molto al di là dei suoi effettivi meriti e demeriti) si sono sentiti immediatamente chiamati a cercare possibili parentele e referenti nell’universo degli autori cinematografici. Forse semplicemente perché ciò che in questo film vediamo non è nuovo, ma neppure vecchio: è semplicemente differente. Proprio di fronte a qualcosa di differente, il logico cerca di analizzare e classificare, ipotizzare filiazioni e tassonomie. Ma il film si chiama invece Taxidermia, per cui sarebbe più giusto attenersi alla sua pelle, piuttosto che cercargliene altre.

L’idea del film Taxidermia nasce da due racconti dello scrittore ungherese Lajos Parti Nagy, trasposti in parte nelle storie di Vendel e di Kalman. Dallo scrittore, Pálfi mutua il senso del grottesco, nonché una certa attitudine al barocco debordante ma filtrata da uno sguardo distaccato.

E così tanto le perversioni di Vendel (la masturbazione praticata infilando il membro in una fessura di una baracca di legno, per dirne una) quanto gli exploit alimentari di Kalman (e il successivo “stretching” mediante vomito) o l’autoimbalsamazione di Lajoska (praticata tramite una macchina che lo tiene in vita e poi lo decapita) sono filmati con un’attitudine non emotivamente partecipativa (rare sono infatti le soggettive) anche quando la mdp sta “addosso” ai corpi e ai loro interni.

Il mood generale con il quale sono presentate queste vicende al limite dello shock è infatti di distacco ironico e sardonico. Perciò si può anche ridere, quando in un impeto d’orgoglio l’obeso Kalman, paralizzato dai chili di troppo, dice al figlio Lajoska (il cui nome riecheggia in vezzeggiativo quello dello scrittore da cui è tratto il soggetto del film, Lajos) con vanto che c’è una tecnica di vomito (!) che porta il suo nome.  

Se il mood è di distacco ironico, però, la mdp di Pálfi è tutt’altro che statica, benché non conosca mai movimenti frenetici e il ritmo generale del montaggio non sia mai serrato.

Si pensi a quando Vendel si china su una vasca di legno e la mdp parte da un’inquadratura in plongée per compiere una serie di carrellate circolari verso destra, passando attraverso il pavimento e inquadrando diverse situazioni che hanno come centro di riferimento proprio la vasca. Essa è quasi una sorta di arca intorno alla quale ruotano le sue ossessioni sessuali nonché il correlativo visivo di quanto dice il superiore di Vendel: “la fica fa ruotare il mondo”.

Nella vasca fanno il bagno due giovani donne che Vendel spia fantasticando, e lì avrà un rapporto con la carcassa di un maiale immaginando di averne uno con la grassa moglie del suo superiore. Che il rapporto fosse solo immaginato o reale non è dato scoprirlo. Certo è che per questo Vendel sarà ucciso dal suo superiore, la cui moglie partorirà davvero un bambino, Kalman, ma dalla coda suina. Lo stesso movimento rotatorio poc’anzi descritto sarà compiuto nuovamente dalla mdp quando ci presenterà con una ellissi temporale Kalman neonato (e castrato della sua coda suina) e poi adulto partecipare alla competizione olimpica di abbuffate.

È come se il cerchio fosse figura di una situazione senza uscita da ossessioni con un solo centro che esistono per tre generazioni, uguali nei padri come nei figli. E non già perché, come nelle tragedie greche, la colpa sia ereditaria, perché di colpe qui non si parla, ma, appunto, solo di ossessioni, quelle inconfessabili perché sgradite al pudore e al buon gusto, destinate a perdurare anche oltre la morte di chi le ha nutrite. Infatti, il corpo auto imbalsamato di Lajoska (Laio, quindi, ma senza un Edipo che lo assassini, perché è egli stesso anzi a liberare i famelici gatti che divoreranno suo padre Kalman), che non ha avuto figli continuerà a resistere nel tempo e ad essere ammirato anni dopo come un formidabile esperimento. Chi ne canta le glorie nel finale in un asettico padiglione scientifico è in qualche modo connesso alla morte/vita eterna di Lajoska. Si tratta infatti di un uomo che ha consegnato al tassidermista un feto da imbalsamare.

È significativo che i tentativi di approccio alle donne da parte di Lajoska siano sempre falliti e perciò egli non può trasmettere le proprie ossessioni a un figlio (del resto, nell’universo del film, la donna è solo oggetto generativo, assente, eppure è intorno a essa che ruota il mondo, come dice il tenente di Vendel). Le sue ossessioni gli sopravviveranno, vivendo nel suo corpo impagliato, trovando un correlativo nel feto che un uomo (non una donna) gli ha consegnato, per essere poi esaltate coram populi.

Taxidermia recensioneIn questa farsa visionaria non ho trovato, come qualcuno ha detto, la denuncia delle colpe di certa intellighentjia filosovietica ungherese (e non): ad esempio quella che con troppo ritardo ha ammesso i suoi errori e non lo ha fatto per il ’56 dei carri armati sovietici a Budapest. È pur vero che la parte centrale del film sulle ossessioni di trionfo nell’abbuffata sportiva è ambientata presumibilmente intorno agli anni ’50, ed è pur vero che il comunismo in Ungheria ha mostrato a lungo segni di crisi fino al fallimento del modello sovietico come falliscono le ossessioni dei tre protagonisti.

Vedo in Taxidermia un discorso che non può essere ristretto alla denuncia politica (che se ci fosse, e costituisse la chiave interpretativa del film, sarebbe comunque assai poco approfondita), ma un racconto visionario dal tono più generale, da apologo, quasi. Un apologo che in quanto tale non denuncia ma addita i lati torbidi di certe ossessioni, il loro fallimento e il loro trionfo, semmai questi possano coincidere e semmai possano essere (a torto) glorificati.

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