Werner Herzog

Benché le definizioni possano spesso stare strette agli autori, mi piace pensare Werner Herzog come il cineasta delle sfide impossibili. Herzog (con Fassbinder, Syberberg, Wenders, uno degli alfieri della Neue Welle, sorta di Nouvelle Vague tedesca) ha spesso raccontato la più impossibile tra le sfide: quella tra uomo e Natura. È così, ad esempio, nel film che nel ’75 fece conoscere questo autore al grande pubblico: Aguirre, furore di Dio, storia del “folle volo” di un conquistador alla ricerca del mitico El Dorado. O nello splendido: Fitzcarraldo (1982), storia di un amante della lirica che intende costruire un teatro nella foresta Amazzonica. Sono storie di “uomini al limite”, ebbri di “lucidissima follia”, come il Woyzek del film omonimo tratto dalla piece teatrale di Georg Buchner, o sognatori e pazzi come Aguirre. Sognatori, si: perché “Chi sogna può scalare le montagne”, come viene detto in Fitzcarraldo.

 

Werner Herzog però non si limita soltanto a raccontare sfide impossibili nei suoi film, ma è anzi l’autore che più di ogni altro ha vissuto come sfida tout-court la realizzazione di ogni suo lavoro cinematografico. Valga come esempio di ciò ancora Fitzcarraldo,  per il quale Herzog fece realmente trasportare una nave su un monte della foresta Amazzonica, nel bel mezzo della guerra tra Ecuador e Perù. O anche Herz aus Glass-Cuore di vetro, in cui tutti gli attori recitano sotto ipnosi. In questo senso il regista somiglia ai suoi protagonisti: è egli stesso un sognatore disposto a scalare le montagne.

E sfide sono stati a loro modo anche i cinque film di Herzog interpretati dall’attore Klaus Kinski, che ebbe col regista un rapporto burrascoso a livello umano (i due arrivarono anche a minacciarsi di morte), ma che diede ottimi risultati a livello artistico. In definitiva, i film di Werner Herzog raccontano di due sfide, dunque: quella del plot (virtuale) vissuta dai personaggi e quella (reale) vissuta dall’autore con la sua troupe che scorre sotterranea alla prima.

Le sfide dei personaggi herzoghiani, sin dal primo lungometraggio Lebensceichen-Segni di vita (1967) storia di tre soldati tedeschi in Grecia durante la seconda guerra mondiale, sono spesso destinate a fallire sotto i colpi di una Natura inquietante, impenetrabile, non-soggiogabile. Una Natura ostile e perciò sublime, che, parafrasando le parole dello stesso regista “dà più l’idea della fornicazione che non quella dell’amore”. I paesaggi herzoghiani sono quelli della Grecia (Segni di vita), dell’Africa (Cobra Verde), dell’America Latina (Aguirre). Werner Herzog ha realizzato oltre alle opere di fiction anche numerosi documentari  che allo sguardo onirico e allucinato proprio delle opere a carattere fiction, rivelano un grande interesse antropologico e etnografico, come Fata Morgana e I medici volanti dell’Africa Orientale. I film di Werner Herzog funzionano quasi come l’astronave Discovery del kubrickiano 2001:Odissea nello spazio, diretta verso Giove, ma destinata ad arrestarsi di fronte all’impenetrabile monolito che tutto azzera nel suo buoio: una progettualità estrema, un sogno folle destinato  il  più bello delle volte a fallire. Come nel finale di Aguirre, che, ormai solo sull’imbarcazione il cui equipaggio è stato decimato dalle febbri e dalle frecce degli indios, lancia nel sole accecante i suoi progetti di conquista.

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