Quentin Tarantino e il postmodernismo: la globalizzazione e il frammento.

Quentin Tarantino
Foto di Cinefilos.it

Nel 1967, Robert Aldrich, noto regista di film di vario genere, accomunati da un crudezza formale e di contenuto, gira Quella sporca dozzina; dieci anni dopo, Enzo G. Castellari, con non poche difficoltà di produzione, porta a termine Quel maledetto treno blindato. La prima pellicola, vuoi per la carica violenta, vuoi per il cinismo di fondo che caratterizza gli eroi protagonisti, cattura l’attenzione del cinefilo Quentin Tarantino; lo stesso regista, noto per l’enciclopedica cultura cinematografica specializzata in B-movie, riscopre la pellicola di Castellani, ed è subito amore: il creatore di Pulp fiction, intende omaggiare la pellicola di Castellani, proponendo una versione di Inglorious Bastards (questo il titolo di produzione di Quel maledetto treno blindato), che risenta del fascino subito dal film di Aldrich.

 

In ogni caso, e quale fosse il ritmo, la sorte ci premiava,
perché a voler trovare connessioni se ne trovano sempre,
dappertutto e tra tutto, il mondo esplode in una rete,
in un vortice di parentele e tutto rimanda a tutto, tutto spiega tutto…
(Umberto Eco)

Queste le premesse per l’ultima impresa di Quentin Tarantino, che già prima dell’uscita nelle sale si propone,  coerentemente alla poetica d’autore del regista, come creazione a partire da. Il presupposto di base è sempre l’amore di Tarantino per il cinema, che sfocia nella suo desiderio di omaggiare e ri-creare a partire da soggetti preesistenti, all’insegna di un citazionismo folle e maniacale. Ma se il pastiche cinematografico riesce spesso a proporre forme e situazioni decisamente originali, c’è da dire che alle volte il tutto si limita ad una sorta di esperimento ricreativo intento a riesumare quelle pellicole sottaciute e misconosciute che fanno breccia nell’animo del regista.

Ora, prima di abbandonarci  a critiche e giudizi gratuiti privi di analisi, avviamoci a contestualizzare la figura del regista all’interno del panorama cinematografico e non solo.  I prodotti tarantiniani sono ovviamente riconducibili alla logica postmoderna del collage e della combinazione di elementi preesistenti: la memoria agisce come elemento predominante all’interno di tale situazione culturale,  ove nulla è nuovo e tutto è stato precedentemente enunciato. In virtù di ciò, i registi coerenti(volenti o nolenti) alla corrente postmoderna, affondano le loro mani nel flusso incoerente delle immagini della memoria.
Figlio del proprio tempo, Quentin Tarantino riesce a rielaborare tali presupposti in una chiave del tutto personale, andando a riscoprire immagini perdute setacciando prodotti ignorati e facendo rivivere, sia dal punto di vista puramente estetico che nel contenuto, situazioni e soggetti parossistici, i quali  -vuoi per le limitazioni di tipo produttivo, vuoi per le intenzioni dell’autore – si caricavano spesso di caratteristiche kitsch o trash. Tutto ciò, rielaborato all’interno di un prodotto fortemente autoriale, ma soprattutto magistralmente confezionato, crea all’interno del film un effetto tendente allo straniamento, che avviene quando vediamo rivivere all’interno dell’opera pellicole sgranate, improbabili colonne sonore anni ’70, e montaggi che invidiano le produzioni di serie Z.

Questo, proiettato ad uno spettatore abituato alla spettacolarizzazione e ad un’immagine sempre più nitida e lustrata, distoglie il pubblico dall’immagine pulita cui è abituato, e lo ricolloca all’interno di un prodotto, ove quelle situazioni volutamente fuori luogo e fuori tempo, risultati di sperimentazione ludica e/o di atti di riverenza nei confronti di quella parte di cinema da lui amata, suscitano uno spiazzamento che porta lo spettatore all’accettazione del gioco del regista. Per quanto riguarda la citazione, se spesso si è finiti con l’accusare il regista di plagio e mancanza di originalità, è pur vero che altrettanto spesso tali giudizi non hanno tenuto conto della creatività e delle modo in cui tale recupero avviene.

L’invidiabile cultura cinematografica permette a Quentin Tarantino di spaziare dai b-movie italiani a misconosciute pellicole orientali, riciclando materiale filmico all’interno di un prodotto finale, risultato appunto da generi e tradizioni cinematografiche disparate: la memoria del regista,  filtrata attraverso la coscienza postmoderna, si configura come un magma di materiale globalizzato, mescolato e rielaborato all’insegna di una visione del cinema scevra da settorializzazione nazionali.  Ed è proprio questa coscienza dell’imminente globalizzazione che motiva Tarantino a guardare al di fuori della propria cultura, spingendolo a collaborare più volte con registi come Miike  Takashi (anch’egli sempre aperto a nuovi orizzonti), e riuscendo a far coesistere all’interno della produzione americana generi quali il chanbara, gongfu e action.

Tale logica di de-costruzione del film matura nel corso degli anni, delineando una linea formale che da Le iene a Kill Bill, palesa ed estremizza la tendenza alla frammentazione del prodotto, e parallelamente si avverte col passare degli anni, l’inclinazione verso un cinema più spettacolare e meno pregno.

All’interno di questo quadro, la citazione contribuisce alla decostruzione del film: è tanto forte da brillare di luce propria, e da riuscire-insieme con gli elementi della cultura avantpop che pur contaminano il film- a frantumare il film in tante piccole situazioni a sé stanti, figlie della società dello zapping e celebrative della perdita dell’attenzione che caratterizza lo spettatore con cui Tarantino si confronta; summa della poetica tarantiniana, Le iene  e Pulp fiction, hanno dato vita a tutto questo, con i loro dialoghi totalmente avulsi dal contesto che sfiorano il surreale e svelano l’inadeguatezza dell’immagnie, con la negazione del racconto cronologicamente inteso, con i sottili riferimenti ora al cinema americano ora alla mafia giapponese, il pulp, l’exploitation e bizzarre situazioni fagocitate e rigurgitate in una pellicola curata in ogni minimo dettaglio che vive proprio del caos che vi regna.

La prima svolta si ha con Jackie Brown: nella presentazione di un prodotto aderente  al noir, privo di quella frammentazione che opera su tutti i livelli del film (piano formale e sceneggiatura), si in riconosce in Tarantino la maestria di dirigere una pellicola impeccabile, che rinnova il genere tramite personaggi e i dialoghi brillanti, pur non ricorrendo a situazioni estreme ma riproponendo contesti e circostanze caratteristiche del genere cui appartiene. Tarantino dimostra di essere un ottimo regista e un geniale sceneggiatore pur senza eccedere, muovendosi con mano ferma all’interno di una narrazione classica contaminata di riferimenti all’blaxploitation.

Ma le prime titubanze si hanno nel quarto film del regista, Kill Bill, in cui Quentin Tarantino non è all’altezza delle prime produzioni; il film, nato all’insegna del puro divertissement, sembra fare il verso al cinema del sol levante, il quale viene riproposto in maniera  smisurata. Se da una parte si riconosce il merito di saper mischiare genere diversi e proporre personaggi che sfiorano il parossismo, dall’altra pecca in profondità: dedito quasi ad un tecnicismo senz’anima Tarantino si concede alla superficialità dell’immagine, abbandonando i dialoghi che trionfavano nelle prime produzioni e palesando una spettacolarizzazione del ritmo e degli eventi. La fredda violenza che caratterizzava Le iene viene sostituita dall’autocompiacimento a dal patetismo; nessuna sperimentazione trova spazio ma c’è solo idolatria verso il cinema di culto.

Dimentico dei primi capolavori, Tarantino si abbandona ai ritmi degni dell’action movie più piatto, riempiendo il film di un vuoto dinamismo. La velocità e l’action, da interpolazioni che erano in un cinema fatto di dialoghi e sequenze memorabili,  finiscono col diventare il senso ultimo di un opera che si svuota e si carica della portata spettacolosa che caratterizza molto cinema commerciale. Se la parola era la co-produttrice di senso all’interno del film, arrivando anche ad anticipare l’immagine palesandone l’inefficienza, è pur vero che con il quarto film dell’autore, la parola viene soppiantata a favore dell’azione e del sentimentalismo, rinunciando alla freddezza che caratterizzava le opere prime.

Ma dopo il divertito Kill Bill, Quentin Tarantino sembra ritornare sui suoi passi con A prova di morte, ove road movie e dialoghi brillanti tornano a prender forma; ora, anche se all’interno del progetto Grindhouse il film di Tarantino risulta fuori luogo rispetto al più riuscito Planet terror di Rodriguez, si intravede un ritorno ai toni più tarantiniani.

Forti di ciò, aspettando Bastardi ingloriosi, speriamo nel ritorno ad un pensiero più critico e complesso del film, auspicando un prodotto che sia ancora il frutto di un profondo amore per la settima arte; che sia scevro da facili soluzioni coinvolgenti e lontano dai paraventi che caratterizzano molte produzioni comuni; che sia orientato in profondità, verso lo sperimentalismo e le riflessioni che hanno fatto di questo autore uno dei più grandi autori del nostro tempo.

 

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