Tratta da The Lost Flowers of Alice Hart, best-seller d’esordio dell’australiana Holly Ringland, Ascolta i fiori dimenticati è la nuova miniserie targata Prime Video disponibile in esclusiva sulla piattaforma a partire dal 4 agosto. Lo show, diretto da Glendyn Ivin (Penguin Bloom, Safe Harbour), ripercorre le pagine dell’autrice in sette episodi e si affida, tra i membri del cast, al magnetismo dell’icona Sigourney Weaver, (non) protagonista di una storia di violenza, memorie e segreti.
Ascolta i fiori dimenticati, la trama
Alice Hart (Alyla Browne) è una bambina vivace che abita nella campagna australiana, insieme con papà Clem (Charlie Vickers) e mamma Agnes (Tilda Cobham-Hervey). È curiosa, adora leggere e condivide con la madre la passione per le antiche leggende. L’illusione d’una serena vita familiare nasconde però una brutale verità: un’esistenza di paura, lividi malcelati ed impotenza. Una realtà di prigionia priva di apparenti vie di fuga. Quando un misterioso incendio le uccide entrambi i genitori, Alice, di appena nove anni, si trasferisce dalla nonna paterna June Hart (Sigourney Weaver) alla Thornfield flower farm, fattoria e luogo di rifugio per donne sole e in difficoltà.
Qui la bambina cresce, trascorrendo la propria infanzia e adolescenza a imparare nomi e significato dei fiori e delle piante selvatiche che la circondano. Avvolta dal caloroso affetto della nonna, della di lei compagna Twig (Leah Purcell) e delle altre donne lavoratrici di Thornfield. Il passato però, con i suoi fantasmi e i suoi non detti, conserva ancora la promessa di un inesauribile tormento. E tra corrosivi silenzi e verità negate, Alice, divenuta adulta (Alycia Debnam Carey), dovrà imparare a fare i conti con i mille volti di una “sorridente” violenza che sembra perseguitare la sua famiglia.
Reticolo di memorie
Ascolta i fiori dimenticati. Titolo e consiglio, invito. Chiave d’accesso a un mondo che precipita, sin dai primi istanti; quando lo spensierato idillio di un falso abbraccio si tramuta nel terrore di uno sguardo freddo e implacabile. Una casa, anzi più case degli orrori abitano la vita di Alice Hart; non antiquate dimore ricolme di spiriti maligni, bensì reticolati – per certi versi Flanaganiani – di memorie, colpe, oscurità. Stilemi horror più che altro geografici, architettonici, innestati su di un canovaccio drammatico anch’esso consueto, lungo la traccia del quale violenza domestica e riflessione sulla stessa continuano a intersecarsi, corroborandosi l’un l’altra.
Quanto a lungo un abuso può perdurare? E a che punto il desiderio di protezione muta e degenera in manipolazione e controllo? Glendyn Ivin interroga lo spettatore servendosi di un prodotto che parla più lingue; lo fa attraverso un poliglottismo organico che, nell’ottica di accompagnare lo spettatore nell’affaticato percorso di “riabilitazione” delle sue protagoniste, mescola l’esotismo del mito al simbolismo del linguaggio floreale, la potenza del silenzio scioccato all’urgenza del grido di denuncia. All’interno però di un labirinto di suggestioni e svelamenti in seno al quale, in più di un’occasione, Ivin sembra talvolta diffidare del proprio pubblico – o di se stesso? -, incorrendo in un didascalismo fin troppo “urlato”, che finisce paradossalmente per smorzare vigore e portata del messaggio.
Sigourney Weaver e incagli strutturali
Ascolta i fiori dimenticati trova invero il proprio “sole” nel corpo e volto di Sigourney Weaver, la June Hart a cui la star classe 1949 presta il proprio talento – terza declinazione mini-seriale dopo le esperienze di Political Animals (2012) e The Defenders (2017) – e che, di fatto, rappresenta la stella polare dello show, indiscusso punto di riferimento narrativo e attoriale. Nella sofferta ostinazione di June rivive la rude dolcezza che ormai da decenni mappa le traiettorie interpretative della diva, icona plasmata negli anni dalle mani dei grandi maestri Ridley Scott, James Cameron e, più di recente, Paul Schrader (Master Gardener, di nuovo un giardino e i suoi intrighi). Qui rughe e ferite divengono via via sempre più evidenti, lo sguardo della donna si arricchisce di sfumature d’intensità; il cappello a tesa larga da cowboy ne inselvatichisce il portamento e ogni dettaglio, indispensabile tessera di puzzle, riempie l’inquadratura d’una classe ed eleganza senza pari – nonostante le brillanti prove di Leah Purcell e Alycia Debnam Carey.
A impoverire allora il potenziale dell’avvincente controparte letteraria sono invece incagli di natura strutturale. Passaggi più o meno prevedibili o dalla messa in scena poco originale, snodi e cliffhanger da soap opera e, in particolar modo, una costante sensazione di annacquamento del materiale, stiracchiato, almeno a tratti, come burro spalmato su troppo pane. Il prodotto, considerati i differenti piani temporali e narrativi coinvolti, avrebbe forse giovato di un formato distributivo differente, perché no un lungometraggio “a capitoli”, che sapesse preservare gli elementi di maggior interesse dell’intreccio e coniugarli ad una compattezza espositiva più impattante e meno dispersiva.