In nome del cielo: recensione della serie con Andrew Garfield

In nome del cielo recensione serie tv

Il 24 luglio 1984 Brenda Lafferty e la sua bambina di quindici mesi Erica vennero brutalmente assassinate nella loro abitazione. Quasi vent’anni dopo lo scrittore Jon Krakauer scrisse il libro-inchiesta che raccontava come si fosse arrivati a quel crimine orrendo, scavando nella storia della religione mormone e analizzando anche sue derive maggiormente fondamentaliste. In nome del cielo: è la miniserie in sette puntate che si basa sul testo omonimo drammatizzandone gli eventi, ovvero raccontando le indagini che portarono alla cattura degli assassini.  

 

Cosa succede in In nome del cielo?

Creato dal premio Oscar Dustin Lance Black (Milk), lo show fin dal pilot riesce a creare un puzzle narrativo e visivo di potenza drammatica non comune, neppure per il prodotto seriale televisivo. La grande forza di questo adattamento televisivo sta nel rispettare pienamente lo spirito e l’intento primo del romanzo smentendone al tempo stesso la natura di non-fiction al fine di creare la struttura più adatta per lo show. Mettendo al centro della storia i due detective incaricati di risolvere il caso di duplice omicidio, Black innesca immediatamente il classico meccanismo della detection, salvo poi adoperarlo anche, anzi forse soprattutto, per esporre dall’interno l’universo chiuso e soffocante di una cultura religiosa la cui rigidità sfiora fin troppo spesso il radicalismo. Il vero e proprio colpo di genio del creator sta nell’inserire uno dei due poliziotti, Jeb Pyre (Andrew Garfield) fortemente dentro il contesto culturale, sociale e religioso dentro cui deve indagare: all’opposto si trova invece il collega Bill Taba (Gil Birmingham) che essendo un nativo americano riesce a lavorare col giusto distacco emotivo e psicologico. In questo modo le indagini si trasformano non soltanto in un confronto sottile ma vibrante tra due persone che vivono in maniera diversa il rispettivo credo religioso, ma pian piano lo sviluppo del caso diventa per lo stesso Pyre un percorso a tappe all’interno della propria coscienza, viaggio moralmente lancinante che lo porta a mettere in discussione i fondamenti di quelle stesse convinzioni su cui ha basato la vita, sua e della sua famiglia.

In nome del cielo
CR: Michelle Faye/FX.

L’architettura narrativa di Under the Banner of Heaven viene inoltre costruita come un poderoso mosaico che adopera svariati flashback per dipanare i fatti accaduti, spingendosi a ricostruire anche i momenti salienti che nel XVIII secolo hanno portato alla fondazione e allo sviluppo della religione mormone. In questo modo Black e la sua miniserie riescono a gettare uno sguardo indagatore di notevole lucidità sulle radici di una religione controversa, esplorando con ferocia estetica e drammaturgica il fatto che il fondamentalismo sia un qualcosa di presente, se non addirittura radicato, anche dentro i confini americani. 

In nome del cielo
CR: Michelle Faye/FX

Last but not least

Last but not least, In nome del cielo (Under the Banner of Heaven) ideato e sviluppato con tale lucidità non poteva che diventare veicolo perfetto perché il cast di attori riuscisse a dare il meglio nei rispettivi ruoli. Se a supporto vanno elogiate le prove di Sam Worthington, Kieran Culkin, Wyatt Russell e Daisy Edgar-Jones, l’applauso più sonoro deve necessariamente andare ai due interpreti principali: dopo essersi fatto notare nelle produzioni di Taylor Sheridan, in particolar modo I segreti di Wind River e la serie Yellowstone, Gil Birmingham costruisce un detective Taba tutto d’un pezzo, che affronta l’ostracismo razzista del tessuto sociale in cui lavora con un orgoglio sopito e una determinazione ferrea. La prova di Birmingham non va mai sopra le righe, pur esplicitando pienamente la forza morale  e mentale del poliziotto. Grazie a un gioco di specchi ammirevole invece Andrew Garfield lavora sulle crepe di Jeb Pyre, sul progressivo sgretolamento della sua umanità. Perfetto il lavoro sulla mimica trattenuta del personaggio, sul suo linguaggio fisico che man mano mostra il peso del dubbio prima, e della raggiunta consapevolezza in seguito. Garfield recita con passione e attenzione minuziosa dei particolari, arrivando a creare una figura in chiaroscuro destinata a rimanere impressa.

In nome del cielo è la miglior miniserie thriller/poliziesca da anni a questa parte, capace di adoperare il genere per puntare lo sguardo indagatore (ma mai preconcetto) su un microcosmo produttivo e in espansione, il quale rappresenta per molti versi un significativo “angolo buio” nella società americana. Nel farlo, questa serie propone uno spettacolo di profondità e potenza emotiva che metteranno a dura prova la coscienza dello spettatore, possiamo garantirvelo. Come possiamo assicurarvi che ne vale assolutamente la pena. In Italia la serie debutterà 27 luglio sulla piattaforma streaming Disney+, all’interno di Star.

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RASSEGNA PANORAMICA
Adriano Ercolani
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in-nome-del-cielo-recensione-andrew-garfieldUnder the Banner of Heaven è la miglior miniserie thriller/poliziesca da anni a questa parte, capace di adoperare il genere per puntare lo sguardo indagatore (ma mai preconcetto) su un microcosmo produttivo e in espansione, il quale rappresenta per molti versi un significativo “angolo buio” nella società americana. Nel farlo, questa serie propone uno spettacolo di profondità e potenza emotiva che metteranno a dura prova la coscienza dello spettatore, possiamo garantirvelo. Come possiamo assicurarvi che ne vale assolutamente la pena.