Incontri ravvicinati del terzo tipo, spiegazione del finale

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Il finale di Incontri ravvicinati del terzo tipo è uno dei più enigmatici e affascinanti della storia del cinema di fantascienza. A distanza di decenni, la celebre melodia a cinque toni e la visione della nave madre continuano a suscitare lo stesso senso di stupore che Steven Spielberg cercò di imprimere nel pubblico del 1977. Per comprendere davvero quel momento — e perché Roy Neary decide di salire volontariamente a bordo dell’astronave aliena — dobbiamo partire dalla natura del film: non un racconto di invasione, ma una parabola sulla comunicazione, sulla curiosità e su quel desiderio istintivo che spinge l’uomo verso ciò che non conosce.

La trasformazione di Roy Neary e il richiamo dell’ignoto

Fin dalle prime sequenze, Roy appare come un uomo ordinario che vive un’esperienza straordinaria. Il suo incontro ravvicinato non è solo un fenomeno luminoso nei cieli: è un evento che ristruttura la sua interiorità. Le visioni spontanee, la melodia che non riesce a togliersi dalla mente e l’immagine ricorrente di Devil’s Tower diventano per lui una necessità fisica ed emotiva. Spielberg rappresenta la sua ossessione non come follia, ma come un impulso insopprimibile verso un significato più grande. La sua famiglia non lo comprende e si sfalda, ma Roy continua a cercare. È questo che lo rende lo spettatore ideale dell’evento finale: un uomo disposto a perdere tutto pur di trovare la risposta che sente chiamarlo.

Alla base della sua trasformazione c’è l’idea spielberghiana per eccellenza: l’infanzia come stato di apertura emotiva permanente. Roy non agisce come un adulto razionale, ma come un bambino rapito dalla meraviglia. La sua scelta di abbandonare la vita precedente non è fuga, ma un ritorno a una forma di innocenza che gli permette di ascoltare l’ignoto senza paura.

Perché gli alieni non sono nemici: il significato del contatto pacifico

Quando la nave madre si apre sul paesaggio notturno, Spielberg non costruisce tensione, ma stupore. La luce calda, il design morbido degli extraterrestri, l’atmosfera quasi liturgica: tutto suggerisce un’intenzione benevola. Negli anni ’70 il cinema di fantascienza era dominato dal sospetto verso ciò che veniva dallo spazio: gli alieni erano minacce, invasori, simboli delle paure della Guerra Fredda. Incontri ravvicinati rovescia tutto questo. Gli extraterrestri non rapiscono: restituiscono. Non attaccano: rispondono. Non parlano: dialogano attraverso la musica.

La melodia a cinque toni diventa quindi il fulcro simbolico dell’intero film. È un linguaggio che non appartiene né agli umani né agli alieni, ma che li unisce in un terreno comune. Un linguaggio primordiale, semplice, universale. Spielberg suggerisce che il primo vero passo verso l’ignoto deve essere la comunicazione, non la difesa. Per questo il finale non contiene conflitti: contiene un negoziato armonico tra due intelligenze che scelgono di fidarsi l’una dell’altra.

Perché Roy decide di salire sulla nave: fiducia, curiosità e rinascita

Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977)

Il momento in cui Roy Neary viene scelto dagli alieni è il punto culminante del film. Non è un rapimento, né un sacrificio. È un atto volontario. Roy non si sente costretto: si sente finalmente compreso. La sua intera esperienza — la degradazione della vita familiare, l’ossessione, l’incomprensione degli altri — trova un senso nell’apertura della passerella dell’astronave.
Gli alieni gli offrendo ciò che cercava da mesi: un significato.

Il film costruisce questa scena in modo da far percepire allo spettatore sicurezza e possibilità. Gli altri rapiti tornano sani, sorridenti, non invecchiati. Nulla suggerisce pericolo. Spielberg ci chiede di fare ciò che Roy fa: avere fede nella benevolenza dell’ignoto. Salire sulla nave non è un tradimento della sua vita terrestre: è un percorso di rinascita. Roy va verso ciò che lo ha chiamato, e il pubblico deve credere che sia la cosa giusta.

Il vero messaggio del finale: sostituire la paura con la meraviglia

Come molte opere di Spielberg, Incontri ravvicinati si basa su un principio cardine: ciò che non comprendiamo non deve essere temuto, ma esplorato. Il film invita lo spettatore a reagire all’ignoto con curiosità e meraviglia, non con sospetto e aggressività. Roy incarna questa predisposizione: è disposto a mettere da parte i pregiudizi umani, a considerare gli alieni non come invasori ma come interlocutori.

Il finale funziona proprio perché ribalta le aspettative del genere: non c’è battaglia, non c’è minaccia globale, non c’è distruzione. C’è, invece, un patto silenzioso tra civiltà. Spielberg immagina un futuro in cui il primo contatto non è guerra, ma armonia; non è paura, ma comunicazione; non è chiusura, ma possibilità. Ed è questo che rende il finale tanto memorabile: la scelta di un’umanità migliore.

Redazione
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