Joe Wright: i 5 migliori film del regista inglese

Anna Karenina

Fine 2012: sui cartelloni cinematografici fa la sua comparsa il nuovo film di Joe Wright: Anna Karenina, adattamento cinematografico del grande classico di Lev Tolstoj. Complice la sceneggiatura di Tom Stoppard (Shakespeare in Love) il regista si allontana da ogni sorta di realismo per portare in scena questa storia come mai nessuno aveva osato prima. Chiusi all’interno di un gioco fatto di scatole cinesi, Joe Wight inserisce Anna e la sua tragedia tra le mura di un vecchio teatro. Tra scenografie artificiali (come artificiale e precostruito è il comportamento della società russa in cui Anna è costretta a interagire) nell’hic et nunc dell’opera, tutto, dal palcoscenico al sottopalco fino alla platea, alle quinte alle scale e ai corridoi, viene incluso nello spazio d’azione del film. Sebbene la performance di Keira Knightley risulti a tratti un po’ troppo marcata e sopra le righe, essa è in realtà perfettamente coerente con l’ambiente circostante.

 

Trovandosi tra le mura di un teatro, anche la recitazione degli attori risente di questa inconsueta location: essa è ora poco discreta, non più giocata in sottrazione, ma supportata da movimenti marcati e mimiche espressive caricate. Tra giochi dissimulatori e segreti pronti a essere svelati, quello di Anna Karenina è uno spettacolo che si crea nel suo svolgersi, giocando tra il farsi e il disfarsi. La regia di Wright si fa così perfetta proiezione della stessa psicologia del personaggio di Anna, naufraga in un abisso interno costellato di dubbi e insicurezze che la trascineranno verso l’inchino finale suggellato dalla morte. Indimenticabile la scena del ballo, giocata su una tensione erotica resa esplicita dalla musica di Dario Marianelli: quella tra Anna e Vronskij (un Aaron Taylor-Johnson in parte) è una danza di mani che si sfiorano per poi toccarsi prima con delicatezza, e poi sempre più avidamente, mentre il mondo circostante pian piano svanisce come un sogno pronto a tramutarsi in incubo.

Hanna

Si è soliti pensare a Joe Wright come il regista dei grandi romanzi. Ecco perché un film come Hanna gioca un ruolo determinante nella carriera di questo cineasta. Uscita nel 2011, questa è l’unica pellicola diretta da Wright basata su una sceneggiatura interamente originale, firmata da Seth Lochead e David Farr.

Risulta estremamente difficile – se non impossibile – far rientrare Hanna nei confini di un solo genere cinematografico. In essa convivono varie nature, da quella fiabesca, a quella thriller e d’azione, fino al classico Bildungsroman; sono identità tutte diverse e tutte congiunte che fanno di questo film un prodotto unico, come unica è la sua protagonista: una ragazza atletica,  dalla pelle diafana, i capelli biondissimi e gli occhi color ghiaccio. Un aspetto del tutto angelico, il suo, (a interpretarla è Saoirse Ronan, attrice lanciata proprio da Wright con Espiazione) che nasconde dietro quel viso rassicurante una macchina da guerra.

Un orizzonte citazionistico dove tutto sembra essere tutto, per poi rivelarsi uguale a niente, quello creato da Joe Wright, il quale trova ancora una volta nell’impiego del piano sequenza il suo massimo generatore di suspense. Ispirandosi a grandi classici come Pickpocket di Robert Bresson, o cult contemporanei (Oldboy di Park Chan-Wook) Wright fa di una scena di aggressione all’interno della metropolitana di Berlino, una danza della violenza sublimemente attrattiva. A sostenere l’impianto dell’opera è un patchwork citazionistico che senza raggiungere i livelli tarantiniani, affianca con sapienza rimandi metacinematografici a Stanley Kubrick, Fritz Lang e lo stesso Tarantino, (si pensi alla figura folle e perversa di Isaacs, uno straordinario Tom Hollander).

Sebbene manchi un testo di riferimento a cui raffrontarsi, per creare l’universo di luci e ombre di Hanna il regista trova la propria fonte di ispirazione nel mondo delle fiabe. La struttura ossea del film combacia perfettamente con il più semplice racconto di formazione. Wright si àncora agli stilemi del genere, li prende in prestito per poi manipolarli e innervarli con elementi più confacenti alla sua idea di cinema. Hanna è tante cose, ma è soprattutto una fiaba in chiave dark abitata da eroine coraggiose (Hanna), aiutanti (il padre Erik, il giostraio e la famiglia inglese), streghe cattive (Marissa), lupi famelici (Isaacs) e il bosco irto di ostacoli (il mondo reale). Nessun “vissero e contenti” attenderà la giovane protagonista alla fine, ma una vendetta colorata di sangue.

Espiazione

Spari. Confusione. Uomini che si dilettano in esercizi ginnici, mentre altri si lasciano in preda alla disperazione. Nessun stacco di montaggio,. ma un piano sequenza di quasi cinque minuti con cui Joe Wright catapulta lo spettatore nell’incubo della guerra. Se il piano sequenza di Dunkirk è uno dei momenti più celebri di Espiazione, a livello diegetico esso gioca un ruolo chiave nello sviluppo del racconto: tra quei granelli di sabbia che invadono lo schermo mescolandosi alla polvere da sparo resa perfettamente visibile dalla fotografia cinerea di Seamus McGarvey, la realtà lascia sempre più spazio alla fantasia incalzante, dominante della protagonista Briony (Saoirse Ronan).

Un cambio di rotta, un passaggio di confine segnato da un lembo di spiaggia che separa in due il capolavoro di Joe Wright. Sorta di saga familiare narrata per la prima volta nel 2001 da Ian McEwan nel suo acclamato best-seller, al centro di Espiazione c’è Briony Tallis che per uno stupido errore di valutazione compiuto a tredici anni rovinerà per sempre l’esistenza della sorella Cecilia e del suo amato “Robbie” Turner. L’espiazione che dà il titolo all’opera è dunque quella che Briony cercherà di raggiungere scrivendo un libro-memoria che la scagioni dal senso di colpa e che doni ai due giovani un piccolo, esile, barlume di illusoria felicità.

Accostando ricordi, eventi reali e immaginati, Wright si diverte a sconvolgere l’ordine temporale della storia senza per questo raggiungere il parossismo. Ne consegue un gioco a incastri dove il sogno si veste di realtà e ogni certezza diegetica viene messa in dubbio. Si genera un racconto labirintico che prende per mano lo spettatore per poi lasciarlo del tutto perdersi tra gli antri nascosti dell’immaginazione fanciullesca. Un’immaginazione giocata sul potere delle parole capaci di creare mondi fantastici, ma anche di distruggere ogni spiraglio di contentezza. Ogni tasto premuto sulla tastiera della macchina da scrivere è un’incudine che incide per sempre la pietra, tracciando con segni indelebili, sottolineati dalla colonna sonora di Dario Marianelli (premio Oscar nel 2007) il destino proprio e altrui.

Sembra quasi un paradosso come in un film basato sulla forza sprigionata dalle parole, queste manchino del tutto. Richiamati dall’obiettivo di Wright, i personaggi comunicano con il proprio corpo, con parole sospirate, comunicate con uno sguardo, immaginate, scritte, ma mai pronunciate. E saranno le parole impresse per sempre su pagine di carta a segnare la vita di Cecilia e Robbie: saranno i libri a fare da testimoni a uno degli incontri sessuali più dolorosamente intensi della storia del cinema (e per questo paragonabile a quello di Messaggero d’Amore di Joseph Losey) mentre cartoline, lettere, appunti a mano si faranno tramiti di un unico, disperato appello: “Ti amo, torna, torna da me”.

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