M. Night Shyamalan
Gage Skidmore from Peoria, AZ, United States of America, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

In un’epoca cinematografica dove i film sono dominati da uno stile videoclip, a sua volta influenzato dalla moda di MTV, stupisce come un talento di nuova generazione come Night, scelga uno stile completamente differente, addirittura controcorrente. Siamo nell’era del montaggio veloce, che abusa del mezzo, dei continui remake, prequel, sequel, tratti da, dal romanzo di, etc. che talvolta o il più delle volte distruggono piuttosto che creare, trasformano un mito, un film unico in un espediente “commerciale” frutto di un’industria che produce se stessa e perde completamente il senso del narrare. O ancora nel periodo in cui mostrare le interiora di un individuo o semplicemente il massacro di un essere può generare successo o piacere per il pubblico, Night sceglie l’esatto opposto.

 

Sceglie di non filmare la tragedia, ma solo di anticiparla o farla intuire. Proprio in questo scenario impervio si insinua  M. Night Shyamalan; è con il suo stile rigido, con le sue fantastiche storie, la sua poetica ben formata e pronta a essere sviluppata che impone il suo cinema. Egli sceglie un senso registico “Classico”; sorprende ancor di più l’enorme successo di pubblico che ha avuto, nonostante remi contro l’industria cinematografica di oggi. Questo sta a testimoniare che non tutto è frutto del volere “commerciale” e che davanti ad un’ampia scelta, lo spettatore sceglie ancora il gusto e lo stile per vedere il cinema. Quello che maggiormente colpisce di Night è la propensione ad un equilibrio tanto precario quanto meticoloso, fra forma e contenuto, regia  e sceneggiatura, aspetto e significato, visione e messaggio. Tutto ciò è dimostrato dalle numerose sequenze dense di significato, in cui  movimenti della macchina da presa assumono un’importanza concettuale in riferimento ai contenuti della storia, senza tralasciare la spettacolarità e la bellezza delle scene.

Da questa riflessione si può iniziare un percorso di individuazione degli espedienti stilistici che sono accomunabili alla dialettica stile/significato, che fanno di Shyamalan un regista meticoloso e attentissimo.

Prendiamo in esame The Sixth Sense,  e in particolare la sequenza in cui Malcom rimane ferito dallo sparo. Colpito si sdraia a letto, mentre la macchina da presa si allontana da lui in plongeé[1].  La scelta del movimento è una sorta di soggettiva dell’anima di Malcom che abbandona il corpo fisico, facendoci intuire inevitabilmente la sua fine, la stessa anima che si ritroverà a vagare per il mondo in cerca di  Cole.

Un’altra sequenza in cui si può individuare meglio la scelta stilistica che esalta ancor di più il significato concettuale e l’uso funzionale della macchina da presa è quella del funerale della bambina. Qui la m.d.p. compie un magnifico piano sequenza della scena.

Per non rischiare di spezzare la tensione accumulata nel film, Shyamalan crea una sequenza molto interessante. L’occhio della telecamera segue Malcom e Cole che attraversano la casa, passando fra i presenti. Attraverso l’audio riusciamo a sentire i commenti delle persone, ed è grazie a questi commenti che arriviamo a capire a pieno  la storia della povera ragazza morta. In una semplice inquadratura il regista, da un lato riesce ad approfondire e a farci comprendere  la storia parallela della vittima, dall’altro riesce a far proseguire la storia di Cole che è venuto per superare le sue paure ed aiutare l’anima della ragazza. Per la prima volta, Shyamalan introduce l’uso del piano sequenza che diventerà importante per dare vita alle sue visioni registiche (si pensi alla costruzione narratologica di Unbreakable). A questo proposito va sottolineato come Shyamalam creda fermamente alla teoria di Walter Murch che nel suo In un batter d’occhio[2] dimostra l’importanza di usare pochi stacchi in un film, paragonando questa esperienza alla vista umana. Il nostro vedere è come un lungo piano sequenza o un insieme di piani sequenza, e in questa visione gli stacchi corrispondono allo sbattere delle palpebre. Questo concetto è completamente controcorrente con il montaggio frenetico contemporaneo che predilige una continua frammentazione, quasi  una scissione della visione in piccolissime parti.

Merita di essere sottolineato anche l’uso del fuori campo. Il cinema per Shyamalan deve riuscire a coprire tutto, andare oltre i limiti visivi imposti dai margini dell’inquadratura. Ed è in questa concezione che l’uso del fuori campo va oltre quello che potrebbe essere soltanto un mero espediente stilistico, in questa dimensione assume un valore poetico fortemente delineato.  Inoltre, l’uso del fuoricampo si accomuna perfettamente ad uno dei temi che ossessionano la filmografia del regista e che prende il titolo di questa tesi: Vedere e non vedere. Attraverso il fuoricampo noi non vediamo le cose che accadano ma ne percepiamo l’avvenimento. Pensiamo, a proposito di The Sixth Sense, al ragazzo che si è introdotto furtivamente in casa del protagonista Bruce Willis. Si uccide, sparandosi in fuori campo. Shyamalan ce lo nasconde magistralmente con una carrellata che si chiude sul muro, celandoci  il premere del grilletto, ma facendoci sentire il suono dello sparo.  Un’altra splendida sequenza è quando per la prima volta percepiamo qualcosa di strano in Cole  e in quello che gli accade intorno.  E’ mattina, Cole arriva in cucina a fare colazione, mentre beve il latte la madre si accorge che ha la cravatta sporca. Gliela prende e si dirige nel ripostiglio dove ne prende una pulita. Al ritorno trova Cole tremante e tutti i cassetti della cucina aperti. Non sappiamo cosa sia successo in quella stanza, perché la m.d.p. in un piano sequenza di grande fattura ha seguito il personaggio che interpreta la madre di Cole, anziché rimanere in cucina e mostrare cosa sia successo. Una sequenza terribilmente  angosciante, che spinge lo spettatore a immaginarsi  cosa sia successo ed a intuire gli avvenimenti che l’occhio non ha visto. Con questa sequenza Shyamalan introduce  lo spettatore nell’universo delle paure di Cole, senza però farlo immergere completamente nella realtà visiva che Cole è costretto ad affrontare.

Tuttavia, è in The Village che il fuori campo assume un connotato poetico. Il film è denso di cose che accadono in fuori campo, messe in stretta relazione con il significato concettuale della storia. Attraverso questo espediente Shyamalan dimostra un grande talento nel narrare attraverso le immagini e attraverso l’assenza di esse, cosa che accade raramente nella Hollywood contemporanea. Come il personaggio principale Ivy che è non vedente, lo spettatore comprende tutto ciò che serve attraverso il non vedere, attraverso la percezione degli altri sensi, attraverso la visione distorta delle cose. Come accade nella sequenza in cui ci vengono mostrate le creature innominabili. Una pozzanghera riflette immagini distorte di bosco, alberi e rami. Improvvisamente passa una figura rossa, che non vediamo direttamente, ma della quale intravediamo il riflesso rosso  sull’acqua. In un certo senso ne percepiamo il passare attraverso l’immagine distorta nell’acqua. Sequenza importante perché è la prima volta che ci troviamo di fronte alle creature che rendono difficile la sopravvivenza del villaggio. E’ una prima visione distorta che ci viene mostrata  con l’uso parziale del fuori campo. Fuori campo è anche  il bacio dei due protagonisti Ivy e Lucius, che ne sancisce l’unione. Ivy si sveglia in piena notte, come avesse avuto un incubo e si accorge della presenza di Lucius sul portico di casa sua. Gli si avvicina e comincia a parlare ininterrottamente, chiedendo fra l’altro perché Lucius non esprimesse ciò che pensa.  Il tutto illuminato magistralmente dalla fotografia accurata e straordinaria di Roger Deakins. E’ qui che Lucius dichiara il suo amore per Ivy. I due si baciano in fuori campo, quando si avvicinano per toccarsi con le labbra, la m.d.p. si muove lateralmente ad inquadrare una sedia vuota, sullo sfondo una nebbia che circonda tutto e tutti, una nebbia fortemente  significante che esprime lo stato di completa cecità degli abitanti, individui che non riescono a comprendere la verità che bussa alle loro porte.

Il fuori campo oltre ad essere un espediente stilistico/concettuale, viene impiegato dal regista indiano anche come puro intrattenimento che genera spaventose sensazioni. Come accade nella sequenza in cui Lucius percorre il confine vestito con il mantello e cappuccio giallo. In un impeto di coraggio, spinto dalla voglia di varcarne il limite, si porta oltre il confine. Qui si avvicina ad una pianta di bacche rosse (il colore proibito) e ne raccoglie un ramoscello. Improvvisamente sentiamo lo spezzarsi di un ramo e un gemito indistinto. La m.d.p. si sposta dal viso di Lucius verso la sua destra, qualcosa si muove e con la coda dell’obbiettivo vediamo una figura che si allontana. Un urlo indefinito si leva in lontananza e Lucius in preda al panico si allontana, ritornando entro il confine del villaggio.  L’inquadratura si chiude su di lui che rientra. Sul suo viso è disegnato il terrore appena provato. Attraverso il fuori campo ci accorgiamo di qualcosa, di una presenza estranea. Il colore giallo(bene) si scontro con il rosso(male). Ancora una volta Shyamalan da dimostrazione  delle sue qualità fuori dall’ordinario. Il non vedere diventa principalmente il mezzo con cui spaventare, con cui catapultare lo spettatore all’interno delle paure che affliggono il villaggio.  In questa sequenza si può notare facilmente anche un altro espediente stilistico/narrativo al quale Shyamalan ci ha abituati: le sfumature cromatiche[3]. E’ di rilevata importanza per la comprensione del significato concettuale dei film di Shyamalan individuare la simbologia dietro ai colori. In questo caso si fa riferimento  principalmente al Giallo e al Rosso, che rappresentano il dualismo (bene vs. male) all’interno della narrazione e che inevitabilmente finiranno per scontrarsi. Ritornando al fuori campo un altro grande esempio che mostra stilisticamente il senso vero del suo cinema è la sequenza dell’assedio in cantina di Signs.  In particolare, nel momento in cui il piccolo Morgan è aggredito da un alieno, che lo afferra con la mano. In questo momento di forte tensione Shyamalan compie qualcosa che è fuori dal comune e dagli schemi odierni; ovvero spezza il tutto facendo cadere per terra la torcia, unica fonte di luce. Sull’immagine cala il buio più nero, sentiamo urla, rumori, la m.d.p. continua a fissare la torcia, che ad un certo punto viene spostata inavvertitamente da un calcio. Ora la torcia riaccesa illumina Bo impaurito che si avvicina, la prende in mano e illumina ciò che avremmo voluto vedere per tutto il tempo. Qui Shyamalan da dimostrazione di tutta la  sua bravura nel voler spaventare semplicemente non mostrando, celando tutto. E’ qui che è individuabile il senso stilistico del cinema del regista, in questo fuori campo assoluto. Il buio è significante, corrisponde al buio conoscitivo dello spettatore, che fa appello all’unica cosa che gli rimane: l’immaginazione, sicuramente  più pericolosa di qualsiasi altra visione.

L’uso del piano sequenza  è palesemente individuabile nel modo  di girare di Night come tratto stilistico fondamentale. Anzi può essere ritenuto il mezzo espressivo per eccellenza. Lo si può trovare in ognuno dei suoi film e si potrebbe anche azzardare il paragone con un’altra figura del grande cinema che ha fatto del piano sequenza una ragione d’espressione: Michelangelo Antonioni. Anche se è fuori luogo paragonare lo stile  e le intenzioni di Shyamalan al lavoro svolto da Antonioni, si può ugualmente tentare di trovare dei punti in comune che rendono il parallelismo  almeno in parte sostenibile. Si pensi agli elaborati e virtuosistici movimenti di macchina che precedono, accompagnano e seguono gli attori, ponendoli sempre in relazione al paesaggio circostante (vedi The Village/Cronaca di un amore) e che diventano specchio della loro interiorità. Quegli stessi movimenti di macchina che assumono importanza in relazione alla struttura concettuale del film, o ancora al cinema dell’incomunicabilità elaborato dall’autore italiano e che guarda caso diventa tema fondamentale in film quali: The Sixth Sense, The Village e molti altri. O ancora, appunto l’uso del piano sequenza/fuori campo che vuole essere il mezzo con cui non dover frammentare l’esperienza in una serie di inquadrature, ma tentare di restituire , in una tranche de vie[4], la continuità ininterrotta dell’azione. Si fa particolare riferimento al finale di Professione Reporter, in cui un formidabile piano sequenza si lascia dietro l’omicidio del protagonista Jack Nicholson, che viene ucciso in fuori campo per poi mostrarci il suo cadavere sul letto dopo circa 3 minuti e mezzo.

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