La genialità degli artisti e il rigore dei veterani determinano in maniera assoluta la cinquina di candidati all’Oscar 2016 della Migliore Fotografia. Mai come quest’anno, la categoria tecnica che premia la lente dello sguardo e il colore sull’immagine sembra celebrare le massime eccellenze del cinema contemporaneo, molto diverse tra loro ma accomunate da un marchio inconfondibile e personale.
Giunto
alla sua tredicesima nomination, la quarta consecutiva dopo
Skyfall,
Prisoners e
Unbroken, Roger Deakins
firma la fotografia di Sicario (dove
torna a lavorare con Denis Villeneuve) componendo
un quadro di geometrica bellezza. La fusione delle linee, quei
“confini” tanto amati dal regista franco-canadese, con una gamma di
luci che vanno dal neutro totale al viola di tramonti messicani,
fanno di Sicario uno spettacolo visivo imponente, violento, che
lascia parlare le immagini e crea uno spazio per gli attori unico.
In attesa di rivedere Deakins e Villeneuve di nuovo insieme per
Blade Runner 2, non possiamo che
ricordare una delle sequenze più suggestive di Sicario,
esaltata dall’uso del digitale: il blitz nel deserto, con il
percorso dei protagonisti dalla superficie all’interno di un tunnel
scavato nella sabbia. Sarà l’anno decisivo per il pluricandidato
all’Oscar?
Dalla
nitidezza all’opacità, lo sguardo soffuso di Ed
Lachman sul meraviglioso Carol è il vero fiore
all’occhiello di una stagione cinematografica che ha visto il
ritorno sulle scene di professionisti dell’immagine nonché custodi
dell’arte in senso genuino. Il sodalizio con Todd
Haynes semina fortuna, così dopo la candidatura del 2003
per Lontano dal paradiso, Lachman ottiene
la sua seconda nomination e pare correre una strada totalmente
indipendente rispetto ai colleghi. Perchè Carol, oltre
l’apparenza, è un viaggio verso la scoperta di un’identità (quella
di Therese, interpretata da Rooney Mara) ancora
troppo indefinita, e la fotografia diventa lo strumento per
immortalare gli ostacoli, reali e immaginari, che ci separano dalla
piena realizzazione. Vetri appannati, specchi, e una pellicola che
trasuda la grana degli anni Cinquanta. Il lavoro di Lachman su
Carol è sensibile, maniacale e attento a
ogni sfumatura, e dopo averlo ammirato nei film di Wim
Wenders, Sofia Coppola e Steven
Soderbergh, meriterebbe senz’altro un riconoscimento.
Arriviamo a colui che ormai gode del favore dell’Academy e
che si presenta quest’anno dopo due vittorie consecutive:
Emmanuel Lubezki, soprannominato “Chivo”, amante
della luce naturale e della camera a mano che scruta il cielo come
una creatura terrena scruta Dio, ottiene cinque nomination prima di
essere finalmente premiato per la fotografia di
Gravity nel 2014 e poi di
Birdman nel 2015. Con Alejandro
G. Inarritu immagina e sviluppa una corsa folle tra i
corridoi di Broadway, e torna a lavorare negli spazi estremi di
Revenant – Redivivo; lo fa riducendo al
minimo i virtuosismi, al fianco degli attori che respirano e
sanguinano addirittura sullo schermo. L’esperienza interattiva del
film nasce proprio dalla vicinanza della camera al racconto, scelta
fotografica che non solo sostiene l’impianto generale dell’opera,
ma ribadisce il genio assoluto di un artista, prima che tecnico,
eccezionale come Lubezki. La terza vittoria consecutiva è quasi una
certezza.
Quest’anno l’Academy omaggia un altro superbo direttore della
fotografia detentore di ben tre statuette, un record assoluto che
condivide soltanto con un’ altra icona della categoria, Vittorio
Storaro. Stiamo parlando del tre volte premio Oscar Roberth
Richardson; vince nel 1992 grazie a JFK Un
caso ancora aperto di Oliver Stone,
nel 2005 e nel 2012 per The Aviator e
Hugo Cabret, entrambe pellicole di Martin
Scorsese. Tra le sue collaborazioni più rilevanti però spicca
quella che lo lega a Quentin Tarantino: girano
insieme Kill Bill Vol.1 e 2, Bastardi senza
gloria, Django Unchained e l’ultimo, già
acclamato dalla critica, The Hateful
Eight, interamente ambientato in un unico,
claustrofobico ambiente. Tale scelta obbliga la fotografia di
Richardson a calcolare ogni minimo dettaglio, curando le
inquadrature per risaltare i volti lividi degli attori ed animare
la scena che si riempie di fitti dialoghi. Una scena che, come i
violenti protagonisti, pulsa nel contrasto di luce e ombra,
splendidamente raccontato dalla sua camera.
Chiude
questo splendido pentagono di maestri della fotografia
cinematografica John Seale, già premio Oscar nel
1997 per Il paziente inglese e nominato
in altre tre occasioni (nel 1986 per Witness – Il
testimone, nel 1989 per Rain
Man, nel 2004 per Ritorno a Cold
Mountain). Il suo nome torna a lampeggiare
prepotentemente grazie a quello che in molti considerano il film
dell’anno, nonché seconda collaborazione di Seale e George
Miller: Mad Max: Fury Road ha
scosso platee di critici, fatto gridare al miracolo, stabilito un
nuovo limite di perfezione per quanto riguarda il cinema di genere
action, e infine, segnato il trionfo della ripresa più reale e meno
ricostruita in digitale. Tutto ciò che infiamma lo schermo, dagli
spettacolari inseguimenti nella sabbia agli scontri epici su
strada, è il frutto di un lavoro decennale fatto di
progettazione e produzione travagliata, e la maggior
parte del materiale è stato girato senza l’ausilio degli effetti
speciali. Dove interviene lo sguardo e la mano di Seale?
Esteticamente, sul look cangiante e saturato sulle palette calde di
rosso e derivati; formalmente, con campi lunghi alternati a piani
che evidenziano la centralità dell’azione e dei protagonisti.
Potrebbe essere davvero la sorpresa di questa 88° edizione degli
Oscar, ma staremo a vedere.
Appuntamento al 28 Febbraio con la cerimonia di consegna dei premi, condotta da Chris Rock.