The Mastermind: la spiegazione del finale del film con Josh O’Connor

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Il finale di The Mastermind, ultimo film di Kelly Reichardt con Josh O’Connor, è uno dei più ambigui e potenti della filmografia della regista. Dopo un racconto dominato da fallimenti, illusioni e piccoli tradimenti, la storia di J.B. Mooney — carpentiere disoccupato e ladro improvvisato — si chiude con un’immagine che sembra sospesa tra il realismo e la parabola morale. Arrestato per caso durante una manifestazione contro la guerra in Vietnam, J.B. scompare in un furgone della polizia, confuso tra la folla di giovani idealisti che lottano per un mondo migliore. È una fine amara, ma anche profondamente coerente con la visione di Reichardt sul destino dell’individuo nel caos della società americana.

Il senso dell’arresto: un ladro tra i manifestanti

Nelle ultime sequenze del film, J.B. tenta di fuggire dopo aver fallito in tutto: il furto è stato scoperto, i suoi complici lo hanno tradito, la moglie non vuole più sentirlo e persino i suoi figli lo rifiutano. Privo di denaro e identità, si mescola a un gruppo di giovani pacifisti in protesta contro la guerra. In un gesto disperato, ruba la borsa di un’anziana per procurarsi i soldi del viaggio, ma finisce travolto da una carica della polizia e arrestato insieme ai dimostranti.

È una conclusione paradossale: un uomo che ha sempre rifiutato l’impegno politico si ritrova, per puro caso, a essere scambiato per un attivista. Ma proprio questa casualità è il punto. Reichardt mostra come nessuno, nemmeno chi si crede separato dal mondo, possa restare davvero fuori dalla storia. L’arresto di J.B. è un ritorno forzato alla realtà collettiva, una resa al mondo che aveva tentato di ignorare.

Dal furto alla colpa: l’espiazione attraverso l’assurdo

Durante tutto il film, J.B. ha cercato di giustificare le proprie azioni come una ribellione personale: rubare arte per sottrarla al mercato, per conservarla in uno spazio privato, per sentire di “possedere” qualcosa di autentico. Ma quella giustificazione crolla nel momento in cui capisce di non aver fatto altro che distruggere ciò che amava.

Quando apprende che i quadri rubati sono stati recuperati e restituiti al museo, J.B. si ritrova improvvisamente vuoto. La sua impresa non ha lasciato traccia. Persino il suo gesto “artistico” si dissolve, come se il mondo avesse cancellato ogni segno della sua esistenza. L’arresto finale diventa allora una forma di espiazione — ma non una punizione divina, bensì una condanna umana, quotidiana. È la logica della realtà che lo richiama all’ordine, come se il suo fallimento fosse l’unico modo per riconciliarsi con se stesso.

Il simbolismo del furto e della folla

The Mastermind

Reichardt costruisce il finale con una forte valenza simbolica. Il furto dei quadri, all’inizio del film, era stato l’atto di un singolo contro la collettività: un modo per impossessarsi di un bene comune e renderlo privato. La scena finale rovescia questo gesto: ora J.B. viene inghiottito da una massa indistinta, perdendo il controllo sulla propria individualità.

La regista filma la folla come un organismo caotico, vivo, dove i corpi si spingono e si confondono. La macchina da presa rimane stretta sul volto di O’Connor, immerso nel panico e nell’incredulità. In quel momento, J.B. non è più il “mastermind” del titolo, ma un uomo comune travolto dagli eventi. La sua intelligenza, la sua astuzia, il suo desiderio di dominio si dissolvono nel rumore della collettività.

Il film termina quando il furgone della polizia si chiude e il suono delle sirene copre tutto. Nessuna musica, nessuna voce fuori campo. Solo il vuoto. Reichardt lascia che lo spettatore resti sospeso, come se quell’istante racchiudesse la verità ultima del film: la libertà individuale non esiste senza responsabilità verso gli altri.

La metafora politica: l’individuo nel crollo del sogno americano

Ambientando il film nel 1970, Reichardt colloca la vicenda in un momento di profonda crisi dell’identità americana. Dopo la fine dell’utopia hippie, la nazione si trova divisa tra idealismo e disincanto. J.B. rappresenta la terza via: quella del cinismo, dell’indifferenza, dell’uomo medio che si sente tradito da entrambi i mondi.

Il suo gesto criminale è una ribellione svuotata di senso, priva di ideali. Non ruba per cambiare le regole, ma per sentirsi vivo. Quando viene trascinato via insieme ai manifestanti, Reichardt mostra come questa assenza di ideologia sia essa stessa una forma di colpa. La libertà, suggerisce il film, non è l’atto di sottrarsi al mondo, ma di parteciparvi — anche nel fallimento.

In questo senso, The Mastermind è meno un racconto di rapina e più una parabola morale sul costo dell’individualismo. La regista smonta il mito dell’uomo che si fa da sé per mostrare la sua fragilità. J.B. crede di poter vivere al di sopra delle regole, ma finisce schiacciato proprio da quel mondo che ha ignorato.

Il finale secondo Kelly Reichardt: la condanna della solitudine

Intervistata a Cannes, Kelly Reichardt ha spiegato che “essere un fuorilegge è un privilegio”. Nel film, questo concetto trova il suo culmine nel finale: J.B. ha potuto permettersi la ribellione perché protetto dal suo status, dalla sua famiglia, dalla sua classe sociale. Ma quando quelle protezioni svaniscono, resta solo la solitudine.

L’arresto non è solo fisico, ma spirituale. È il momento in cui il protagonista capisce di essere diventato irrilevante. L’arte che voleva possedere è tornata a essere pubblica, la moglie lo ha lasciato, e il mondo continua senza di lui. In questa consapevolezza dolorosa, Reichardt trova la sua verità più politica: l’individualismo senza comunità è solo un’altra forma di prigionia.

L’ultima immagine: il volto dietro il vetro

L’inquadratura finale mostra il riflesso di J.B. sul vetro del furgone che lo trasporta via. È un’immagine che sintetizza tutto il percorso del film: un uomo intrappolato tra il dentro e il fuori, tra il desiderio di libertà e la consapevolezza del limite. Il vetro diventa metafora della barriera invisibile che separa l’individuo dal mondo.

Mentre la camera si allontana, l’immagine del volto si dissolve nel riflesso della folla che corre in strada. È un effetto semplice ma devastante: J.B. scompare, e con lui l’illusione dell’eroe. Resta solo la collettività, imperfetta e rumorosa, ma ancora viva.

Il significato profondo del finale

Alla fine, The Mastermind non parla di furti né di arte, ma di appartenenza. Il percorso di J.B. è la cronaca di un uomo che tenta di essere eccezionale in un mondo che non ammette più eccezioni. La sua caduta non è una punizione, ma una rivelazione: la libertà autentica non consiste nel sottrarsi al mondo, ma nel riconoscere di farne parte.

Con questo epilogo, Kelly Reichardt costruisce una chiusura che ribalta le regole del genere heist: invece della fuga trionfale, arriva la resa. Invece del bottino, la consapevolezza. Invece del silenzio del museo, il caos della piazza.

Il “mastermind” del titolo non è mai stato un genio del crimine, ma un uomo comune che ha scambiato la solitudine per libertà. E nel suo arresto, in mezzo agli altri, scopre troppo tardi che la vera prigione è sempre stata dentro di sé.

Redazione
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