The Mastermind di Kelly Reichardt non è soltanto un heist movie ambientato negli anni Settanta. È un film che esplora i limiti dell’individualismo americano, il fallimento del sogno borghese e la sottile attrazione per la trasgressione. Dietro la storia di James Blaine “J.B.” Mooney, un uomo comune che decide di rubare quattro dipinti da un museo di provincia, si nasconde un intreccio di fonti reali, suggestioni cinematografiche e riflessioni sociali.
Il film, presentato in concorso al Festival di Cannes 2025 e interpretato da Josh O’Connor, nasce da un fatto realmente accaduto: il furto al Worcester Art Museum del 1972, uno degli episodi meno noti ma più curiosi della storia dei musei americani.
Il furto reale al Worcester Art Museum
Nel 1972, in una tranquilla cittadina del Massachusetts, due uomini entrarono nel Worcester Art Museum e trafugarono quattro opere d’arte di enorme valore: due Gauguin, un Picasso e un Rembrandt. Fu un colpo sorprendentemente semplice, compiuto senza piani sofisticati né armi, in un’epoca in cui i musei statunitensi non disponevano ancora di sistemi di sicurezza moderni.
Il furto rimase impresso non tanto per l’entità del bottino – le opere furono poi recuperate – quanto per la mentalità dei ladri: dilettanti, privi di motivazioni ideologiche o politiche, spinti piuttosto da un impulso personale. Quel gesto, tra l’ingenuità e la sfida, rappresentava perfettamente il clima di transizione dell’America dei primi anni Settanta, sospesa tra il disincanto post-hippie e l’emergere di una nuova etica individualista.
Proprio da qui nasce l’ispirazione di Kelly Reichardt: il desiderio di raccontare un “piccolo furto” come specchio di un grande malessere collettivo.
Dalla cronaca al cinema: Kelly Reichardt e il fascino dell’arte rubata
Reichardt ha dichiarato di aver raccolto per anni ritagli di giornale sui furti d’arte, attratta dall’idea di persone comuni che decidono di sottrarre bellezza al mondo per custodirla in privato. L’immagine-chiave, racconta, era quella di una coppia che aveva nascosto un dipinto di Willem de Kooning nella propria camera da letto: “invece che condividerlo con tutti, lo tenevano solo per sé, dietro una porta chiusa”.
In The Mastermind, questo gesto diventa il cuore simbolico del film: il passaggio dell’arte dal pubblico al privato come metafora dell’egoismo dell’uomo moderno. Ambientare la storia nel 1970, poco prima del furto reale, consente alla regista di esplorare un’America in bilico tra utopia e disillusione. Il Vietnam infuria, la controcultura sta svanendo e il sogno collettivo si disgrega in una miriade di ambizioni personali.
L’ispirazione di Arthur Dove: un colpo d’arte minore, ma significativo
Nel film, J.B. Mooney sceglie di rubare quattro tele di Arthur Dove, un artista realmente esistito, considerato uno dei pionieri dell’astrattismo americano. Una scelta sorprendente per un ladro, perché le opere di Dove non erano particolarmente richieste né sul mercato né nel mondo del collezionismo.
Questa decisione dice molto del protagonista: non ruba per denaro, ma per un bisogno di riconoscimento. Come ha spiegato Josh O’Connor, “vuole dimostrare di avere gusto, di essere diverso. Rubare i quadri che solo i veri artisti conoscono lo fa sentire superiore agli altri”.
La regista ha raccontato che proprio questa scelta “ridimensiona le ambizioni” del personaggio e del film: non siamo di fronte a un colpo spettacolare alla Ocean’s Eleven, ma a un piccolo, tragico furto nato dall’ego e dalla frustrazione.
Un’America disillusa: dal sogno collettivo alla fuga individuale
Come in molte opere di Reichardt, la cornice storica è determinante. Ambientando la vicenda nel 1970, la regista sposta il racconto dal clima febbrile della fine del decennio Sessanta alla malinconia di un paese che non sa più cosa credere.
J.B. è un carpentiere disoccupato, padre di famiglia, che si sente invisibile in una società in crisi. Non rischia il Vietnam, non partecipa ai movimenti pacifisti, ma guarda da lontano un mondo che sembra muoversi senza di lui. Il furto diventa allora una ribellione confusa, un atto di autoaffermazione in una realtà che non offre più ideali condivisi.
Reichardt definisce The Mastermind “una storia sul costo della libertà personale”. Il protagonista cerca di sottrarsi al conformismo borghese, ma finisce per riprodurre le stesse logiche di potere che disprezza: mente alla moglie, inganna i genitori, manipola gli amici. È la parabola dell’individualismo americano che implode su sé stesso.
Dalla realtà alla parabola morale: il peccatore di Kelly Reichardt
The Mastermind dialoga apertamente con Pickpocket di Robert Bresson, film che Reichardt cita come modello spirituale. Entrambi raccontano la discesa morale di un uomo comune che ruba non per bisogno ma per impulso, e che attraverso il crimine scopre il proprio limite umano.
Nelle mani della regista, la figura di J.B. diventa un “santo laico” del fallimento. Ogni sua scelta sembra condurlo più vicino alla distruzione: tradito dai complici, abbandonato dalla famiglia, infine intrappolato in una fuga senza direzione. L’ultima sequenza, con J.B. trascinato via dalla polizia durante una manifestazione contro la guerra, riassume tutto il senso politico del film: l’uomo individualista viene inghiottito da una massa di corpi in protesta, incapace di distinguere se stesso dal caos collettivo.
È la fine del mito del self-made man, sostituito dalla consapevolezza che nessuno può davvero restare “fuori” dal mondo che abita.
La storia vera dietro la finzione
Sebbene The Mastermind prenda molte libertà narrative, la sua base reale resta solida. Il furto di Worcester avvenne davvero, ma Reichardt lo reinterpreta come racconto morale. I veri ladri furono catturati poco dopo, e le opere restituite. Non c’erano ideali né rivendicazioni: solo un piano improvvisato e maldestro.
La regista parte da quel fatto per indagare un tema più ampio: cosa spinge una persona comune a rubare qualcosa che appartiene a tutti? La risposta non è psicologica, ma sociale. Gli anni Settanta furono il momento in cui la promessa di libertà degli anni Sessanta si trasformò in consumismo, alienazione e frustrazione economica. J.B. incarna tutto questo: non un criminale, ma un uomo incapace di accettare i propri limiti.
Tra cinema d’autore e mito americano
The Mastermind si colloca perfettamente nella poetica di Kelly Reichardt, autrice di film come First Cow e Certain Women, dove la regista ha sempre indagato il rapporto tra individuo e comunità. Anche qui, dietro la trama di un furto, si cela una riflessione politica: l’impossibilità di vivere fuori dalla collettività.
Il film richiama l’estetica del cinema americano degli anni Settanta, da Jean-Pierre Melville a Hal Ashby, fino ai primi film di Scorsese. La regia privilegia tempi dilatati, silenzi, personaggi marginali. L’azione è ridotta all’essenziale: ciò che conta è l’attesa, il gesto minimo, la tensione interiore.
Reichardt non trasforma il suo protagonista in un eroe, ma in un emblema. J.B. è l’immagine di un’America che ha perso la fede nel futuro e che cerca redenzione nel possesso, nel furto, nell’illusione di un gesto eclatante che dia senso a un’esistenza banale.
La vera lezione di The Mastermind
Dietro l’eleganza sobria e la ricostruzione storica, The Mastermind racconta una verità semplice e universale: la libertà assoluta è un’illusione. J.B. Mooney ruba quadri per affermare la propria individualità, ma finisce per scoprire che ogni azione personale genera conseguenze collettive.
È
questa la lezione che Kelly Reichardt trae dalla storia vera del
Worcester heist: non esistono furti innocenti, perché ogni opera
sottratta al mondo è una parte di bellezza che smette di
appartenere a tutti.
Così, il film si trasforma in una parabola sul prezzo del desiderio
e sulla solitudine di chi tenta di vivere controcorrente.
In un’epoca dominata dal mito del successo personale, The Mastermind ricorda che dietro ogni atto di ribellione può nascondersi soltanto una nuova forma di prigionia.

