Incontro Joe Wright alla Festa del Cinema di Roma 2021 #RFF16

Il regista incontra il pubblico della Festa del cinema di Roma, parlando dei suoi film e dei momenti che l’hanno segnato come autore dentro e fuori lo schermo. 

Joe Wright
Foto di Elisa Torsiello © Cinefilos.it

La vita è fatti di incontri. Molti sono sfuggenti, ignorati, dimenticabili; altri restano dentro, ti cambiano, ti segnano. La vita di Joe Wright non si discosta poi molto da quella di molti altri. La sua è una vita fatta di incontri, sia sullo schermo, come quelli del terzo tipo diretti da Steven Spielberg (“il mio primo film al cinema? Incontri ravvicinanti del terzo tipo”), che quelli casuali destinati a ripetersi nel tempo e profumare di Oscar. 

 

Il 16 ottobre 2021 alla Festa del Cinema di Roma un altro incontro è segnato sull’agenda personale di Joe Wright. Un incontro fatto di poltrone occupate, di una sala gremita, di penne che scorrono sulle pagine per non perdersi pensieri e aneddoti interessanti, e di cellulari pronti a cogliere per sempre l’istanza di un momento. È l’incontro con il pubblico italiano, un appuntamento ritardato per anni ma che ora si consolida e lascia a bocca aperta, riempendo di curiosità una sala di astanti pronti a lasciarsi ammaliare da un fiume di parole in piena. 

Già, perché quella di Joe Wright è una vita che odora di arte, una fucina creativa alimentata da una fantasia galoppante e immersiva, nata tra i laboratori di burattini dei suoi genitori, e illuminata dalle luci di un set cinematografico. Ma la particolarità divenuta poetica di questo autore sta tutta qui, in quell’abilità di di tradurre il suo mondo interiore in opere cinematografiche dal taglio teatrale e pronti poi a sconfinare nel mondo del sogno (o dell’incubo). Lui, che con semplicità ammette di essere dislessico (“non era facile ai tempi diagnosticarlo. Molti pensavano che fossi semplicemente stupido o pigro”) prende il cuore di ogni parola impressa su carta per tradurla in emozione. È il paradosso del suo cinema: nascere dall’inchiostro impresso su carta (Espiazione, Orgoglio e pregiudizio, e adesso Cyrano), per tradursi in danza, sguardi, dettagli degli occhi e delle mani. Un cinema fisico, corporeo, che nasce dalla forza delle parole per elevarsi a emozione, amore, paura, sogno.

Joe Wright: Adattare film mentali

Ma cos’è per Joe un adattamento: semplice gioco di fedeltà, oppure di tradimento e rimescolamenti?

Per me adattare un libro significa semplicemente realizzare il mio film personale, la versione che si è palesata nella testa leggendo quelle pagine. È questa la versione a cui devo rimanere fedele. Una versione che potrebbe tranquillamente discostarsi da quella di un altro lettore, il quale si è immaginato un film del tutto differente dal mio.

Uno scambio complice, di reciproco interesse, una partita a tennis tra immaginazione, schermi, pagine letterarie e universi interiori nata per caso, senza una spinta precisa, ma fatta di tanti piccoli, grandi, ricordi. Un puzzle mnemonico che una volta completato l’hanno indirizzato verso la luce di proiezione e sui set di produzioni prima televisive, e poi cinematografiche.

Non mi ricordo di un momento preciso in cui decisi che avrei voluto fare il regista. Ho tanti ricordi però legati al cinema stesso. Oltre a Incontri ravvicinati del terzo tipo e alla scena del purè che mi terrorizzò, mi ricordo di quando chiesi a mia madre come si fanno i film. Senza tante parole, prese un foglio e lo tagliò in quadratini su cui disegnò ora un principe, adesso una principessa e poi un drago. Li attaccò a un bastoncino che inserì in una scatola di scarpe. Poi fece un foro sul coperchio e illuminò il tutto dando vita al nostro film. Un altro aneddoto che mi lega al cinema è quando a 15 anni i miei andarono in vacanza lasciandomi solo in casa. Fu un punto di svolta per me perché trovai una cassetta di Taxi Driver e Velluto Blu. Mi misi a guardarli credendo si trattassero di commedie. Ne fui sconvolto. Ma da lì si consolidò il mio amore per la Settima Arte.

Nel mondo delle trasposizioni, però, capita anche che un inconveniente, come un budget andandosi a ridurre drasticamente, può aiutare a far scattare la scintilla della creatività, far riaccendere il fuoco ardente dell’ispirazione tramutando un ostacolo in punto di forza e carattere unico di un film destinato a distaccarsi dai suoi precedenti osando e sfidando le regole. Così è stato per Anna Karenina dove la storia immaginata da Joe si è andata a scontrare con questioni finanziarie che gli hanno permesso di recuperare un’idea tanto brillante, quanto rischiosa, come quella di incanalare la Russia di fine Ottocento tra le pareti di un teatro. Uomini e donne colti nel loro ruolo di attori, di interpreti dello spettacolo della vita, a cui viene affidata una sceneggiatura a cura di Tom Stoppard che Joe non ha osato modificare, se non nella sua traduzione visiva. 

A Tom non ho osato chiedere di riscrivere la sceneggiatura, affrontata come un testo teatrale classico. Mi sono limitato a realizzare un’idea che avevo da tempo e che non sapevo come tramutare in realtà. 

Il cinema come strumento di apprendimento

Il rapporto con il cinema per Joe Wright non è solo un incontro con paure e timori interiori, sentimenti e angosce che lo hanno segnato prima come spettatore e poi come regista, ma come strumento di apprendimento.

Per chi leggere anche una semplice frase si tramuta in una montagna impossibile da scalare, ecco che le immagini in movimento si fanno perfetti sostituiti di insegnanti e manuali difficili da assimilare. 

Il mio amore per la letteratura arrivò molto tardi. Io poi sono cresciuto in un quartiere tosto di Londra, dove gli insegnanti passavano il tempo più a tenere a bada noi studenti che a insegnarci qualcosa. Il cinema divenne per me strumento di apprendimento. Aggiungo anche che sono cresciuto circondato da hippy che mi ripetevano di trovare qualcosa da dire, ma io non sapevo cosa dire. E poi ecco l’incontro con il cinema. Fare film per me significò apprendere grazie ai grandi come Tom Stoppard e Ian McEwan, trovando qualcosa finalmente da dire.

E il nome di Joe Wright è fortemente correlato a quello di Ian McEwan, un autore difficile da tradurre sul grande schermo per un linguaggio tutto personale fatto di insicurezze, incubi, e labirinti mentali di grandi che giocano a tornare bambini, e bambini chiamati a essere grandi. Un universo che Wright ha deciso di affrontare traendone quello che al momento è forse l’unica opera veramente riuscita nata dalla fucina di McEwan perché capace di restituire tutto il dolore e l’erotico sentimento che li aleggia: Espiazione.

Inizia a leggere Espiazione approcciandomi a una storia come un’altra, dettata dalla più pura tradizione britannica. Poi ecco comparire quella parola, “cunt” (“figa”, ndr), e per me fu come un risveglio che mi intimorì spingendomi al contempo a buttarmi nel progetto. Quello che catturò maggiormente la mia attenzione fu l’incapacità di stabilire una verità oggettiva. Su quel presupposto impostai la struttura del mio film, rifacendomi a Rashomon di Kurosawa. Tutto sta nella poca affidabilità della verità soggettiva e sulla lotta costante con cui imponiamo la nostra versione agli altri, spinti dall’illusione egoistica che la nostra verità sia più esatta di quella degli altri.  

Previsioni da Oscar

Non affonderà nelle radici della verità storica, eppure anche una scena come quella della metro in L’ora più buia, quando filtrata dall’obiettivo della cinepresa di Wirght, diventa reale, solo perché visibile, tangibile, odorante di polvere e sudore. Una manipolazione della verità soggettiva e personale, scritta con l’inchiostro della creatività che Joe tramuta in un incontro poetico colmo di solidarietà e comunione.

Sì, la scena della metro è inventata, sebbene controllando i documenti dell’epoca, non si sappia con sicurezza che fine avesse fatto Winston Churchill quel giorno. Dopotutto stiamo parlando di un leader che amava stare a stretto contatto con il proprio popolo, circondarsi del suo calore, andandolo perfino a trovare durante i blitz post-bombardamenti, così da non farlo sentire mai solo. E chi meglio di un Londoner come Gary Odlman per dar anima e corpo all’icona inglese Churchill. 

Gary Odlman è stata la prima e unica scelta. È l’incarnazione di Londra, della sua parte elegante e rockettara. La cosa simpatica è che a 20 anni Kathy Burke mi invitò a uno screening del film di Oldman. Presentandomi disse a Gary “lui è Joe Wright. È un regista. Un giorno ti dirigerà in un film facendoti vincere un Oscar”. E caso volle che vent’anno dopo Oldman strinse tra le mani proprio un premio Oscar per un film diretto da Wright, L’ora più buia. Ancora un incontro. Ancora una tacca in meno in quei gradi di separazione che portarono Joe a incontrare il set cinematografico e con esso la celebrità, sebbene il suo nome sia ancora fortemente legato ai titoli che ha diretto e la cui fama lo precedono.

Un universo che nasce in seno a un rapporto stretto, embrionale con colleghi elevati al ruolo di famigliari. Non solo set, ma famiglia, una carovana teatrale unita da sinergie e legami solidi, in cui nessuno prevale, ma ognuno contribuisce in maniera egualitaria. Sussiste un rapporto diretto e di affetto sincero tra Joe e i suoi collaboratori, tanto da affermare che “a malincuore devo ammettere che il successo di un film non è da rifarsi solo alle abilità del regista, ma anche e soprattutto dei miei collaboratori e in primis dell’attore, alla scelta di ingaggiare quell’interprete giusto per il personaggio giusto al momento giusto. Così è stato per Gary Oldman, così è stato per Peter Dinklage in Cyrano”.

Cyrano, lettera d’amore all’Italia

E quella sera stessa di quel 16 ottobre 2021, Roma è stata inebriata dalle parole di Cyrano e dalla voce di Hailey Bennett che risuonava tra le sale dell’Auditorium e lungo tutto il red carpet. Un invito a lasciarsi coinvolgere in una storia struggente, resa ancora più umana e introspettiva dalle mani di un Joe. Wright che affonda nuovamente nell’essenza di artigianalità del cinema, per rendere reali i propri personaggi.

Ciò che mi ha sempre affascinato di quest’opera, sin da quando ne vidi la sua trasposizione con Gerard Depardieu, è il mostrare con semplicità come anche chi non si crede all’altezza degli altri, meriti comunque l’amore. Questa è una versione che non prende direttamente vita dalle pagine di Edmond Rostand. È debitrice dello spettacolo teatrale di Erika Schmidt (moglie di Peter Dinklage) a cui ho assistito per la prima volta su invito di Haley Bennett a Chester in Connecticut  dove stavano portando in scena l’opera, sempre insieme a Peter Dinklage nei panni di Cyrano. Ne rimasi estasiato e decisi che quello sarebbe stato il mio prossimo film. Lo proposi a Eric Fellner della Working Title che mi guardò con occhi strabuzzati dicendomi “Joe siamo in piena pandemia. Abbiamo solo il 5% di chance che qualcuno ci finanzi”. Gli risposi che il 5% era un ottimo punto di partenza. È vero, eravamo in pieno lockdown, eppure tutti noi eravamo assetati di contatto umano e non vedevamo l’ora di tornare sul set e creare. Così andammo da Mike DeLuca della MGM il quale ci rispose che ci avrebbe prodotto perché così facendo avrebbe scommesso sul futuro del cinema; in caso contrario avrebbe scommesso sulla sua morte.

Un atto d’amore, quello di DeLuca, con cui scrivere sì una pagina nuova nella filmografia di Wright, ma anche un apostrofo rosa tra “rinascita” e “cinema”. Perché il cuore del cinema batte più forte che mai, e in Cyrano le sue pulsazioni rimbombano forti e potenti, passando tra arterie cittadine che hanno tutto un sapore italiano.

Abbiamo girato Cyrano in Sicilia e sono veramente contento della mia scelta. Ho un certo timore di come affronterete Cyrano, anche perché voi italiani avete un rapporto strano con il musical, vero? Quindi ci tengo a sottolinearlo sin dall’inizio: Cyrano non è un musical, ma un film con delle canzoni. Amo l’Italia. Molti dei miei registi preferiti sono italiani, come Fellini, Antonioni e Sorrentino. Ho anche scritto molte delle mie sceneggiature nel vostro paese, sebbene lo abbia visitato per la prima volta solo dopo Orgoglio e Pregiudizio.

 Cyrano è stato per lo più girato a Noto, cittadina che mi è stata suggerita dalla mia storica scenografa Sarah Greenwood che un giorno mi raccontò di come dieci anni fa, per uno scouting per un altro film, fosse incappata lì  e che si ricordava così bene di noto perché è dove si mangiano i migliori cannoli al mondo. Tutto è nato quindi grazie ai cannoli ed è stata una fortuna. Non poteva esserci location migliore di questa. Ero infatti alla ricerca di un lugo magico, che andasse oltre i concetti di spazio e tempo, e Noto è perfetto. La città è stata del tutto ricostruita dopo un terremoto che nel 1690 l’aveva rasa al suolo. Quello che le è stato poi conferito è un aspetto magico, sospeso, un luogo di fantasia che si adattava perfettamente all’idea che stava prendendo vita del mio Cyrano. La location è tutto, soprattutto nei termini di una storia d’amore piena di contrasti. Per una scena romantica non ho bisogno di un’ambientazione romantica; tutt’altro. Solo immortalando i due amati in un ambiente poco consono e del tutto opposto alle emozioni che i due vivono, posso enfatizzare il loro legame.
Allo stesso tempo, una location così viva di romanticismo come Noto era perfetta per un amore non vissuto, fermo in attesa, con un protagonista che ha paura di mostrarsi e dichiararsi. 

Il volto della magia

Ma quello di Joe Wright è un cinema fisico, tangibile, dove la parole cadono nel vento e a colpire al cuore – sostituendosi a dialoghi e dichiarazioni – sono corpi che danzano, che guardano, che si toccano. Movimenti e gesti colti dal regista con riprese ristrette, dettagli corporei che si fanno associazioni e ponti emotivi tra lo schermo e il cuore dello spettatore.

Le immagini che prediligo di un film non sono mai inquadrature panoramiche, piani-sequenza, ma inevitabilmente un primissimo piano. Un volto. C’è qualcosa di magico e profondo nel vedere un volto sul grande schermo. Qualcosa di nobile e immortale. In particolare in Cyrano verso la fine c’è un’inquadratura a T, in profondità: in essa si vede in primo piano Cyrano e accanto a lui, su una panchina, Roxanne. Una scena lunga dal punto di vista del dialogo circa tre pagine. Pete Robson, da sempre mio operatore di fiducia era coadiuvato da un romano, Lele, che si occupava della messa a fuoco delle inquadratura. Con una mano sulla sua gamba (in maniera del tutto innocente) ogni qualvolta decidevo di cambiare la messa a fuoco gliela stringevo. Questo è un momento in cui si entra in perfetta comunione con gli attori, con le maestranze, con tutto il reparto tecnico-artistico, perché sussiste una profonda conoscenza di come ci apparteniamo legandoci da una forte simpatia ed empatia. 

Un’orchestra che suona all’unisono e in armonia; una compagnia teatrale legata da affetto e complicità; una catena di montaggio ben oliata e in cui ogni meccanismo lavora a favore di quello successivo. Cyrano, come tutto il mondo di Joe Wright, è teatro che si fa cinema e vita che si fa teatro. Una costruzione maestosa, sostenuta da passi che corrono, corpi che abbracciano, mentre Noto si ferma, e le voci cantano, le mani scrivono e gli occhi degli spettatori rimangono ammaliati.

Non perdetevi Cyrano, dal 2022 al cinema. E non perdetevi il cinema di Joe Wright. Sarà un incontro unico. Ravvicinato. Poetico.

- Pubblicità -