Dopo aver visto The Old Oak al Festival di Cannes 2023, finalmente quello che potrebbe essere l’ultimo film di Ken Loach è in Italia, accompagnato dall’ottantasettenne e irriducibile regista inglese. Che in vista dell’uscita in sala del 16 novembre (distribuzione Lucky Red), continua a concedersi generosamente al pubblico – incontrato in diversi cinema della Capitale, anche in compagnia di Zerocalcare – e alla stampa.
Un dramma attualissimo e insieme “una storia di umanità e solidarietà“, e di speranza, pilastri del mondo che Loach – e noi con lui – sogna da sempre e che di nuovo è ambientato nel Nord Est britannico, a conclusione di una ideale trilogia iniziata con Io, Daniel Blake e continuata con il precedente Sorry We Missed You. Qui, in una cittadina come tante, vengono trasferiti dei rifugiati siriani che non tutta la comunità locale sembra disposta ad accettare. È il proprietario dell’ultimo pub rimasto (il TJ di Dave Turner), The Old Oak appunto, ad aprire le porte dell’unico centro di aggregazione disponibile alla gente di Yara (Ebla Mari) nonostante le tensioni e la diffidenza che alcuni soggetti puntano ad alimentare.
Una storia con un messaggio forte, da dove nasce?
I personaggi sono fittizi, ma le storie raccontate sono vere. Quelle degli abitanti di una regione che aveva sempre vissuto delle industrie dell’acciaio, del carbone, che però non esistono più. Le miniere sono state distrutte dalla Tatcher, non per ecologismo, ma per indebolire il sindacato dei minatori, e quando è successo non c’è stato più lavoro per nessuno e le comunità sono andate in crisi. La gente si è arrabbiata, si è sentita imbrogliata da conservatori e centristi laburisti, e quando sono arrivati i rifugiati siriani – come in nessun’altra area del Paese – la gente ha iniziato a chiedersi “perché?”. E il “non vi vogliamo” è diventato “non ci piacete”. Con Paul Laverty, che ha fatto la maggior parte delle ricerche e ha creato i personaggi e la storia, volevamo studiare come possa svilupparsi il razzismo a partire da giuste rimostranze e come potessero trovare un modo per convivere due comunità come queste. Va detto che il film è ambientato nel 2016, ma le nostre ricerche risalgono al 2020, quando, dopo l’ostilità che mostriamo, si era finalmente creata una connessione tra le persone. Cosa che ci ha fatto sentire giustificati nel dire che fosse possibile, che la gente può davvero unirsi.
Come stanno facendo i lavoratori in Italia, ha seguito le polemiche sull sciopero di venerdì 17?
Nel Regno Unito sta succedendo la stessa cosa, giustificando il divieto di scioperare con il fatto che i servizi essenziali devono essere mantenuti. Ma questo dimostra che la classe al potere, i politici, hanno paura. Può sembrare un momento buio, ma come si dice: “È sempre più buio prima dell’alba”. Non si può essere costretti a lavorare in situazioni di sfruttamento, se i diritti vengono attaccati per una categoria, lo sono per tutte. E tutto il movimento sindacale deve smettere di lavorare. O lo fai o perdi. È una sfida per i leader sindacali, è un momento critico che mostra quanto vicini siano a una importante vittoria. Credo…
Qui ha conosciuto Zerocalcare, con il quale sembrate condividere molto.
Devo ammettere che non lo conoscevo prima di incontrarlo ieri sera a Roma, peccato, perché è davvero una bella persona. Abbiamo parlato molto e ci siamo trovati d’accordo su molte cose. Abbiamo anche riso un po’. Non vedo l’ora di vedere i suoi lavori. Persone che io rispetto mi dicono cose belle di lui, è stato un piacere incontrarlo. Vorrei avere la sua gioventù.
Un tema comune è sicuramente quello della Palestina, come mai è un argomento tanto sentito dalle persone quanto apparentemente lontano dalla politica?
Lasciatemi dire prima di tutto che la barbarie dell’azione di Hamas è stato un crimine di guerra, come anche il lungo attacco di Israele contro la gente di Gaza. E in merito cito la posizione del segretario generale dell’ONU António Manuel de Oliveira Guterres, che credo abbia tenuto un discorso molto saggio: gli attacchi del 7 ottobre non si sono verificati dal nulla, ha detto, citando decenni di oppressione dei palestinesi. Tutti hanno il diritto a difendersi e a godere dei diritti umani, e i palestinesi hanno il diritto di resistere quando quei diritti vengono negati. Alla fine la responsabilità di intervenire è sempre delle Nazioni Unite, l’unico modo è agire in maniera collettiva e in nome della legge e dei diritti umani, ma l’ONU è intervenuta in passato in altre aree, perché non per i diritti umani dei palestinesi?
Cosa può fare il cinema? Un film come The Old Oak?
Quella del cinema è una piccola voce in un mondo rumoroso. La speranza è che gli spettatori lascino il cinema con una domanda. Tutto dipende da quel che fanno le persone quando poi escono dalla sala. Noi possiamo incoraggiare quelli che possono davvero cambiare il mondo.
Alla sua età, con la sua storia, non si chiede mai “chi me lo fa fare!”?
No, perché il mio è un grande privilegio. Il cinema è un mezzo meraviglioso, contiene tutto. Raccontiamo storie, creiamo personaggi, c’è scrittura, arti visive, musica, può essere un grande mezzo popolare. Io ho avuto la grande fortuna di iniziare negli anni ’60, nella televisione, in un momento veramente unico nel quale la tv era agli albori e la gente che la controllava non si era resa conto di quanto potente potesse essere. Io facevo parte di un piccolo gruppo di giovani, tutti tra i 20 e i 30 anni, con i quali realizzavamo fiction contemporanee, una diversa ogni settimana, un’ora e mezza in prima serata, giusto dopo le news e nessuno vedeva cosa avremmo mandato in onda se non un giorno o due prima. Qualcosa veniva un po’ incasinato, ma in mezzo al casino qualcosa arrivava. Una volta, con un trucchetto che li ha fatti infuriare – ma era troppo tardi – ho persino infilato una citazione di Trotskii: “La vita è bella. Lasciamo che le generazioni future la ripuliscano da ogni male, oppressione e violenza, e ne godano appieno”.