The Old Oak: recensione dell’ultimo film di Ken Loach – Cannes 76

Il regista inglese potrebbe smettere dopo il Festival di Cannes

The Old Oak recensione

Vero decano del Festival di Cannes, Ken Loach sceglie ancora una volta la Croisette per presentare il suo ultimo – forse in tutti i sensi – The Old Oak, una storia di solidarietà e diritti che continua una tradizione cara al regista, da sempre attento a certi temi e a mettere al centro del suo sguardo le comunità più disagiate e discriminate. E se pure, a 86 anni, non avrà vinto la sua terza Palma d’Oro o il suo quarto Premio della Giuria, quello che potrebbe segnare il ritiro dalle scene di un grande del cinema moderno si conferma un film (prossimamente in Italia, distribuito da Lucky Red) in grado di toccare le corde del cuore di tutti e commuovere i più sensibili.

 

The Old Oak, un porto sicuro

Girato nell’ex pub The Victoria del villaggio di Murton (scelto per le riprese, svoltesi anche a Horden ed Easington, nella contea di Durham), tutto si svolge in una piccola cittadina nel nord dell’Inghilterra, dove la vita scorre placida e ci si ritrova intorno ai tavoli e le birre del pub locale, il The Old Oak. Male in arnese, ma irriducibile come il suo proprietario, TJ Ballantyne, sembra diverso da molti dei suoi avventori, come dimostra all’arrivo di un gruppo di profughi siriani in fuga dal proprio Paese e mal visti dal resto della comunità.

Che si divide, tra chi sente la propria tradizione messa in pericolo e quanti scelgono di stare vicini a Yara e la sua famiglia. Un legame particolare si crea proprio tra la giovane donna, curiosa e appassionata di fotografia, e il bonario e solitario TJ, che finiscono per allearsi per il bene di tutti e per realizzare una sorta di mensa per i più bisognosi, a prescindere dalla provenienza. Un progetto che rischia di trasformare l’unico – e ultimo – luogo di incontro rimasto a disposizione dei clienti, poco propensi a restare a guardare…

La realtà, fuori e dentro il (grande) cinema

Come in altre occasioni, la forza del film parte dalle radici, che il regista affonda nella realtà che ci circonda, e che spesso trascuriamo per abitudine alla distrazione o pigrizia, soprattutto sociale (e social), talmente superficiali da esser pronti a indignarci per il tema del momento, o più virale, e passare ad altro. Una realtà che Loach e Paul Laverty – suo amico e sceneggiatore – invece affrontano da sempre senza paura di schierarsi, instancabili nell’approfondire storie ed encomiabili nel raccogliere testimonianze direttamente da chi le vive.

Al punto da chiamare a interpretarle gli stessi ‘uomini della strada’, come il Dave Turner di Blaydon, ex vigile del fuoco che dà corpo al TJ protagonista. E che tra i tanti si rivela il più in grado di assicurare al film un centro solido intorno al quale crescere. Con una forma probabilmente meno riuscita di altre volte, purtroppo, ma ugualmente di impatto. Grazie alla potenza emotiva della conclusione e di alcuni momenti, nei quali vediamo sottolineata l’umanità della popolazione – che come gli esuli è stata vittima per anni di sfruttamento, abbandono e diseguaglianza – e la disperazione, anche dei più intolleranti, incapaci di direzionare la propria rabbia sociale, come le cronache di raccontano quotidianamente.

Si mangia insieme, si resta insieme

Quella umanità che la guerra non ha sconfitto diventa linguaggio comune tra quanti sappiano trovare il coraggio di vedere l’altro, di riconoscere il “loro” in “noi”. Fondamento imprescindibile per la costruzione del conflitto e della sua risoluzione da parte di Loach, pur in un ambito talmente limitato, che fatica a farsi universale nonostante l’insistenza – a tratti didascalica – sui concetti di “forza, solidarietà e resistenza”. E sulle seconde possibilità. La scelta del cibo come mezzo è forse la più fortunata, sia su ampia scala, quando diventa il fulcro narrativo della seconda parte dello sviluppo, sia su quella minima, con la traduzione del costume ancora vivo anche da noi, del cosiddetto “conforto” (che difficilmente non toccherà chiunque lo abbia provato).

Come detto, è il messaggio ad arrivare, meno il film, a tratti indebolito da interpretazioni iperrealiste o eccessivamente naturali (purtroppo anche quella della Yara di Ebla Mari) e che convince più nella rappresentazione dei fatti che nella descrizione delle drammaticità. L’onestà intellettuale del realizzatore impedisce di dubitare delle sue intenzioni anche quando sullo schermo vengono raccontati dolori diversi, sorprese salvifiche e sentimenti sinceri, ché a conquistare il pubblico bastano le fotografie – e quanto rappresentano – sulle pareti della sala dove lo spirito della comunità davvero si fa vivo e presente. E nella quale, tra piatti cucinati insieme e faide riconciliate, tutti potranno trovare un posto a tavola, e nella storia.

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