di Francesca Vennarucci
Un film corale
Acrid, di Kiarash
Asadizadeh, che si muove raccontando storie di matrimoni
infelici e di personaggi che vivono in una solitudine di coppia che
trova appagamento solo nell’affetto verso i figli o verso rapporti
extraconiugali, un fallimento che riguarda ogni generazione.
La narrazione si sviluppa con
un intreccio molto ben articolato intorno a due famiglie dove
l’amore è finito, e a tenere uniti sono i figli e la rassegnazione.
I veri protagonisti però sono i sentimenti che scaturiscono dal
tradimento, filo conduttore che permette al regista di raccontare
una società ipocrita, quella iraniana, dove le persone non si
sentono libera di seguire il proprio istinto, impedendo a se stessi
e chi è accanto di essere felice. La speranza non vive neanche
nelle nuove generazioni, dove la fiducia mal riposta mette in
dubbio oltre l’amore anche le amicizie, e non lascia ai giovani
nessun appiglio se non quei genitori che tra loro non riescono a
comunicare e a donarsi più amore, ma fortunatamente riescono a
trasmetterlo ai propri figli. Una denuncia dura all’ipocrisia della
società e del peso che la tradizione può avere sulla felicità delle
persone.
Quello che il regista con la sua pellicola lancia è un messaggio forte, che non lascia speranze e via di fuga se non con un percorso fatto di sofferenze e sensi di colpa, dove paura del giudizio del prossimo e di andare contro quella che è la morale di un modo di vivere della cultura con la quale si è cresciuti sono in certi casi più forte del raggiungimento della propria felicità. Acre è il titolo perfetto per un film che riesce a descrivere e a trasmettere al pubblico tutta l’amarezza e la sofferenza del tradimento.
Acrid è stato presentato in Concorso all’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma.