Boiling Point – Il disastro è servito: recensione del film di Philip Barantini

Un incalzante piano sequenza ci porta in una cucina molto movimentata

Boiling Point recensione

Stephen Graham e Philip Barantini ci avevano già provato, nel 2019, con un corto omonimo nel quale recitavano anche le stesse Alice Feetham e Hannah Walters. Un punto di partenza solido e un’idea interessante che vediamo sviluppata nel Boiling Point – Il disastro è servito, nelle sale italiane da giovedì 10 novembre, distribuito da Arthouse, nuovo progetto editoriale di I Wonder Pictures dedicato al cinema d’essai in collaborazione con Valmyn. Un’opera seconda per il regista di Villain, che con il partner e la sous chef Vinette Robinson sta preparandoci una versione televisiva seriale della drammatica serata dello chef Andy Jones.

 

Boiling Point – una vigilia di fuoco

Che troviamo sin da subito distratto da altre preoccupazioni, ma costretto a concentrarsi su quanto sta succedendo nel suo ristorante – tra i più ‘in’ di Londra – nella serata più impegnativa dell’anno, la Vigilia di Natale. La visita a sorpresa di un ispettore sanitario mette il personale in difficoltà e Andy fa il possibile per attenuare le tensioni. Ma è lui il primo a essere sotto stress. Il suo ex mentore, divenuto una super star televisiva, si presenta senza preavviso e accompagnato da un feroce critico gastronomico. Il tutto mentre il nervosismo continua a crescere tra i membri della squadra, e crisi personali e professionali minacciano di distruggere tutto ciò per cui ha sempre lavorato. 

Cotti o scottati, gli chef delle cucine da incubo

The Bear, The Menu e ora Boiling Point… dopo averci raccontato la cucina come gesto e luogo d’amore (non solo per il cibo), dopo averci sommerso di reality o talent culinari e averci invitato a cucinare per questo o quel talent o canale tv, ora sembra arrivato il momento della vendetta. Degli Chef. Finalmente liberi di mostrarci l’altra faccia di un ruolo sempre molto celebrato e mitizzato, un dark side che a seconda dei casi rischia di inghiottire clienti, collaboratori o loro stessi.

Niente rivincite professionali o psico-thriller in questo caso, il dramedy ambientato tra i fornelli e dietro le quinte di un ristorante alla moda ha un ritmo che molti film di genere potrebbero invidiargli. Merito di una scrittura capace e di una regia intelligente, che hanno saputo ampliare l’idea originale realizzando un crescendo che si sviluppa in un unico piano-sequenza (per altro girato subito prima del lockdown del marzo 2020, e facendo solo quattro tentativi in due giorni di riprese).

Spesso gioco formale, qui la scelta risulta perfettamente funzionale alla volontà di rendere il lavorio incessante e forsennato – oltre che organizzato e sincronizzato – di una cucina, soprattutto di alto livello. E che ci regala la condizione rara di osservare una storia nel suo svolgersi, in tempo reale, lasciando all’attenzione di ciascuno per i dettagli la possibilità di approfondire la caratterizzazione dei vari personaggi, soprattutto quelli secondari.

Che seguiamo a turno, senza dimenticare nessuno. Altra dimostrazione dell’equilibrio complessivo dell’intreccio, nel quale a ogni crisi segue un’apparente ristabilirsi della calma, e lo spalancarsi di un nuovo fronte, come una diga nella quale continuino ad aprirsi nuove crepe. L’inondazione sembra inevitabile, ma per sapere da quale parte arriverà si dovrà attendere fino al conto.

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