Carol: recensione del film con Cate Blanchett e Rooney Mara

cate blanchett

Apprezzato al Festival di Cannes, Carol è il piccolo miracolo compiuto dal regista Todd Haynes, che prende un romanzo sconosciuto ai più come ‘The Price of Salt’ di Patricia Highsmith e ne fa grammatica universale di sentimenti e passioni. Con una regia in 16 millimetri, delle meravigliose atmosfere degli anni ’50 e una colonna sonora strumentale e onirica, la pellicola annacqua le coordinate spazio temporali e ci invita a scavare dentro noi stessi per trovare il coraggio per difendere ciò che ci rende davvero felici. Quello di Haynes è uno struggente melodramma, che pur attingendo a elementi classici (l’oggetto proibito, la morale dell’epoca, un sentimento destinato a non essere compreso) riesce a combinarli con un magnetismo disarmante. La regia lavora per sottrazione, parte da una realtà che gronda di dettagli scenici, di cliché narrativi e scenografie luccicanti per poi eliminare, poco a poco, tutto ciò che non rappresenta nulla se non finzione.

 

Il Natale bussa alle porte e si impone vistoso e opulento anche allo sguardo dei più distratti. Dalle vetrine dei centri commerciali, fino alle strade illuminate a festa, il richiamo alla tradizione spinge anche gli animi più tormentati a fare i conti con il calendario, e ad accantonare per un pò i propri turbamenti. Qualcuno ci riesce, qualcuno ci prova. Come Carol (Cate Blanchett), che passeggia in un affollato magazzino di Manhattan alla ricerca di un regalo per la figlia. È Therese (Rooney Mara), la giovane commessa a dover consigliare quel regalo a questa elegante e misteriosa cliente, dalla quale rimane immediatamente affascinata. Le due donne – diverse per età e ceto sociale- saranno costrette a fare i conti con la loro incredibile attrazione e con il bisogno di non fare troppo male alle persone che ruotano intorno alle reciproche vite.

Nella pellicola troviamo quindi un’overdose di elementi per tranquillizzare lo spettatore. E’ la regia stessa che li uccide a uno a uno, simulacri di una realtà ipocrita e menzognera che solo l’autentica passione che non teme giudizio può, con la sua irresponsabile innocenza, smascherare. Carol è una pellicola che cerca di fuggire dalla claustrofobia sociale. Lo fa trasformandosi in un road movie in cui le protagoniste abbandonano la loro vita tranquilla e costruiscono in anonime stanze d’albergo un microcosmo autentico, in cui non vergognarsi della propria versione dell’amore. Il rapporto tra due donne è solo un pretesto, anticipazione di ciò che avverrà qualche anno dopo nella società americana. Eroine anzitempo, Carol e Therese sgretolano le sbarre delle convenzioni, accettando di rinunciare rispettivamente a qualcosa di importante, ma non a loro stesse. Così la liberazione come punto di vista personale, come atto individuale prima ancora che sociale, è ciò che affascina in Carol.

Carol

Il film parla di una rivoluzione che non ambisce a farsi universale, ma che inevitabilmente lo diventerà. Mescolando classicismo ed estetica, con quel gusto nel citazionismo elegante e nelle inquadrature che si fanno metalinguaggio, questa pellicola è un piccolo gioiello di cinematografia impreziosito dalle performance delle sue splendide protagoniste.

La scelta di affidare a un lungo flashback la narrazione non fa che chiudere la costruzione della pellicola in un meccanismo perfetto in cui è impossibile perdere lo spettatore; giocando con la rappresentazione temporale la regia ci lascia sospesi tra presente e passato, alla ricerca di un futuro possibile. Futuro che non ci concede. Nel film esiste solo tutto ciò che ha un posto in quel tempo, che ha un significato in relazione a quello status e a quella dimensione. Il futuro è desiderio, è scandalo. Noi lo possiamo solo intravedere, forse sperare, nell’ultima, meravigliosa inquadratura.

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