Corro da te: recensione del film con Miriam Leone

In sala dal 17 marzo, il nuovo film di Riccardo Milani che dirige due fuoriclasse del cinema italiano, la coppia Miriam Leone - Pierfrancesco Favino.

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È una commedia romantica e divertente Corro da te, l’ultimo film di Riccardo Milani, che dal Benvenuto Presidente! del 2013 non aveva più lavorato a un lungometraggio senza la moglie, Paola Cortellesi. Un adattamento – fortunatamente non del tutto fedele – del Tutti in piedi di Franck Dubosc del 2018. Una sorta di ritorno al passato per il regista, che già nel 2017 aveva guardato oltralpe per trovare l’idea del suo Mamma o papà? (remake di Papa ou maman?, diretto da Martin Bourboulon). E soprattutto è l’ultimo film – per ora – di Piera degli Esposti, scomparsa lo scorso agosto, per la quale Milani crea un personaggio nuovo, perfetto e carismatico, come era lei. 

 

Ma Corro da te è anche l’ultimo film di due nostre star: Pierfrancesco Favino (dopo Promises, in attesa di Il colibrì della Archibugi o il Nostalgia di Martone) e Miriam Leone (dopo Diabolik e prima del prossimo Zanasi, War – La guerra desiderata), che ha lavorato a lungo con la PEBA Onlus, che da anni combatte le barriere culturali verso la disabilità e con la quale ha collaborato la produzione del film nelle sale dal 17 marzo, distribuito da Vision Distribution.

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Foto di Claudio Iannone

Corro da te: un “bellissimo” film sulla disabilità

“Un racconto bellissimo, come è la vita di tutti noi, anche di fronte a difficoltà, pregiudizi, barriere” – come lo definisce Andrea Ferretti, Presidente dell’associazione – che inizia presentandoci l’irresistibile Gianni (Favino). Seduttore seriale, quasi cinquantenne e a capo di un importante azienda che, quasi per caso, si trova a fingere di essere costretto su una sedia a rotelle per vincere l’ennesima sfida con gli amici e conquistare la bella Chiara (Leone).

Una donna solare e dinamica, musicista per lavoro e tennista per passione nonostante l’incidente che l’ha resa paraplegica, come recita la trama. Una scoperta per il prevenuto conquistatore, che inizia a provare per lei tutt’altro tipo di sentimenti. Attraverso lei e i suoi amici, sportivi e vitali almeno quanto lei, Gianni non potrà far altro che cambiare prospettiva su molte cose: la vita, l’amore, la disabilità in sé. Come si spera che molti possano fare, dopo aver visto quel che è riduttivo definire solo un remake.

Meglio dell’originale

Si questiona spesso sulla bontà dei remake, eppure non sono pochi gli adattamenti (ben) fatti dal nostro cinema. Soprattutto proprio di film francesi. In molti casi, il giudizio è inevitabilmente questione di gusti, di sensibilità, di storia e di incontri, tutti elementi legittimi che concorrono a far pendere verso una o l’altra cinematografia, ma qui c’è incontrovertibilmente qualcosa di più. Con buona pace di chi avrebbe voluto che Corro da te fosse un film e dei personaggi ancora più estremizzati, si sente la mano di un autore che negli anni ha dimostrato di saper maneggiare con garbo ed equilibrio un genere che spesso sfugge al controllo dei suoi colleghi.

In questo caso una gran parte del merito va senza dubbio al cast di ‘non protagonisti’, tutti incredibili: dall’amico coscienzioso Pietro Sermonti e il gemello “molto eterozigote” Carlo De Ruggieri, al padre assente di Michele Placido e la trascinante assistente cui dà corpo e carattere una fantastica Vanessa Scalera (Oscar per la miglior interpretazione al Karaoke). Oltre che al team di sceneggiatori, con Furio Andreotti e Giulia Calenda ad affiancare Riccardo Milani nella revisione dell’originale. 

Lo svolgimento è più dinamico e sensuale, ma soprattutto i personaggi sono più credibili e coerenti come anche i dialoghi e la scrittura, in generale. Ogni situazione è gestita meglio, le connessioni tra i singoli caratteri o i diversi momenti narrativi sono più chiare e complete, senza abbandonarsi al didascalismo dell’originale, affetto da troppe inverosimiglianze – o dimenticanze – e da una generale tendenza alla macchiettizzazione.

In Corro da te, la morale non manca, come anche qualche ottimo consiglio sull’accettazione e l’invito a “prendersi” i momenti belli della vita, ma l’arrivarci con un lungo percorso di sgradevolezze e cinismo la rende meno ingombrante. E per una volta, nel confronto ampiamente citato, non siamo noi a gestire peggio eccessi, sguaiatezze e stereotipi. Per non parlare del finale, che emenda la frettolosità e le carenze francesi con un ‘Happy End’ convincente, retorico al punto giusto e in linea con una storia sulla nostra società, selettiva e miope, più che “d’amore” tout court.

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